mercoledì 17 dicembre 2008

FATTO DI FANGO

Era una stagione di straordinaria rinascita per Syd, la sua parabola sembrava avviarsi verso un'ascesa di cui non si intravedeva la sommità ed il successivo declino. Tutti i suoi affari prosperavano, e i risultati più brillanti arrivavano senza un particolare dispendio di energie e sforzi. Le puttane all'uscita dei principali locali della main street lavoravano per lui: ogni sera un paio di scarpe nere di vitello lucidissimo ed un colletto ornato da un foulard, sul quale faceva bella mostra di sé una gemma finissima di lapislazzuli, si fermavano su ogni zerbino, lungo la main street, ed una mano allungava, senza esitazione, una mazzetta di dollari. Le scarpe, il foulard e la gemma erano di Syd, la mano, della puttana di turno. Era un piccolo esercito di donnine obbedienti, in rivista davanti al loro protettore.

C'erano poi le puttane che lavoravano per la concorrenza, nessuna di quelle poteva farsi vedere nella main street, erano tutte nelle strade laterali, dalla 42esima alla 63esima. Grazie alla forza di persuasione di qualche gamba spezzata e poche milze macellate, Syd era riuscito a farsi riconoscere una percentuale interessante del loro fatturato, in genere il cinquantuno per cento. Si accontentava di una quota ragionevole, non era esoso, diceva che ci doveva essere benessere per tutti in downtown. Così, oltre a lui, anche gli altri padroncini riuscivano a prosperare. Per quelli che inizialmente si mostravano riottosi, la cura di persuasione era somministrata da Jack Muso di Cane e Nick Mano Mozza, due degli uomini più fidati di Syd, capaci di portare a termine, in maniera pulita, i lavoretti che il capo affidava loro. Niente di grave, in genere, qualche testa rotta, qualche arto spezzato, niente che non si potesse guarire con pochi giorni di convalescenza. Solo in un paio di casi i due luogotenenti si erano trovati di fronte a gente che non teneva in nessun conto la vita umana, soprattutto la propria. Gente che era finita a guardare il cielo dalla parte delle radici, nel campo di Zio Joe. Joe faceva il contrabbandiere di liquori, era il cugino di Syd e da giovane era noto nel quartiere come Joe il Matto, per via di un paio di ubriachi, suoi debitori, che aveva ucciso di persona, a martellate.

Da quando Syd era a capo del giro della prostituzione a downtown, non c'erano più episodi di violenza per le strade, soprattutto perché le regole erano chiare. Da qualche tempo la gente del quartiere lo chiamava il Sindaco, e questo appellativo non si discostava molto da quella che era la sua reale funzione. Nulla di quanto accadeva nelle strade sfuggiva al suo controllo, ogni abitante aveva un suo ruolo, o compito, preciso, come un personaggio di una rappresentazione teatrale, della quale Syd era l'attento regista. I poliziotti, che giravano, a piedi o in automobile, per le strade, erano tutti sul suo libro paga; il mazzetto di dollari che ricevevano, ogni metà ed ogni fine di mese, andava a risollevare le sorti di famiglie mortificate dalla paga di ufficiale della pubblica sicurezza comunale.

Anche il sindaco, quello di carta, cioè con il nome scritto nell'organigramma della municipalità, che ogni giorno si faceva accompagnare dal suo autista nel palazzo del comune, a scaldare la poltrona, riceveva di tanto in tanto delle benefiche elargizioni da parte di Syd, tanto più cospicue quanto meno si occupava delle faccende di downtown. Elargizioni sicuramente gradite, anche se a Mr. Fletcher – questo il nome del sindaco di carta – piaceva sicuramente di più trastullarsi con le giarrettiere delle ragazze creole, che Syd gli faceva arrivare, direttamente in ufficio, quando lui si comportava veramente bene.

Syd abitava in un agiato, anche se non appariscente, appartamento situato al terzo piano di un palazzo della 52esima ovest, un edificio degli anni Venti, con le facciate e gli interni ancora in buone condizioni, qualche crepa nell'intonaco dell'androne, per l'umidità, ma tutti gli appartamenti erano più che decorosi. Tutti gli inquilini dello stabile pagavano la pigione a Syd, pur non essendo egli il legittimo proprietario dell'edificio, il quale però non poteva essere una zona franca per la sua autorità.

Al primo piano abitavano le sorelle Robinson, due floride signore di sessant'anni, che avevano esercitato la professione fino a dieci anni prima, ma che tutt'ora non disdegnavano di fare qualche servizietto occasionale, soprattutto quando si presentavano alla loro porta giovani squattrinati, che non erano in grado di pagare le tariffe delle puttane in pieno esercizio. Le due sorelle arrotondavano così quanto bastava a permettere loro di recarsi a teatro il sabato sera, dove riuscivano, le settimane in cui erano state spesso con le sottane sollevate, ad acquistare i posti migliori in platea. Syd non prendeva soldi dalle due sorelle, un privilegio questo per il quale esse andavano a trovarlo, quando le chiamava, nel suo appartamento, mettendosi entrambe a sua disposizione.

Soprattutto la minore delle due, Edda, poneva un riguardo molto particolare a quelle visite, in previsione delle quali trascorreva parecchio tempo, prima dal parrucchiere, poi nella toelette a passarsi cubetti di ghiaccio sulle gambe, tra le cosce, e sulla pelle dell'addome per tirarla e ringiovanirla il più possibile. Lucidava la dentiera con olio canforato e poi la lasciava a mollo per alcune ore in un bagno di latte e whisky, per togliere il puzzo della canfora e dare all'alito un odore più lascivo. Edda era anche molto brava ad imbellettarsi con sobrietà in modo che le guance e gli zigomi assumessero un bel colore di rosa carne, ma senza che comparissero chiazze a tinte smaccatamente forti. La sera dell'appuntamento rimaneva in piedi davanti alla finestra che dava sulla strada, ricoperta dalla sola sottana – l'appartamento era freddo a quell'ora e il freddo, come si è visto, le tendeva la pelle, rendendola più giovane – mentre, sotto le insegne sfavillanti dei locali, formicolavano i fanali delle automobili, e tutte quelle luci giostravano in un caleidoscopio di riflessi sul soffitto della stanza.

Quando poi una luce particolare si fermava accanto al marciapiede sotto la sua finestra, Edda capiva che doveva prepararsi. Poco dopo un rumore di passi precisi le dava il segnale per incominciare a vestirsi e passarsi il trucco. Mentre si svolgevano tutte queste cerimonie, ella si portava più volte all'armadietto accanto al letto, per attingere a piene sorsate da una bottiglietta di bourbon, cosa che serviva a metterla dell'umore giusto. Due tocchi dello stesso bourbon, prima di uscire, andavano ad inumidire le fossette sul collo, all'attaccatura delle orecchie, ultimo imprinting di vanità per una nottata allegra. Subito dopo la porta si richiudeva alle sue spalle con un rumore soffuso, per non svegliare la sorella maggiore, Rosie. Quella stessa porta si apriva la mattina dopo, verso le sei, per lasciare entrare una figura di donna ingobbita, che, a passi strascicati, si dirigeva verso il letto, sul quale si adagiava ancora vestita dell'abito da sera, che strusciava sulle coperte, non senza avere prima ingurgitato ancora un'altra boccata di bourbon.

Quando la luce del giorno si faceva spazio nella camera, tra le figure consumate dei mobili pesanti, dal buio emergeva sempre un volto di donna, una vecchia discinta, con la faccia e le gambe piene di lividi e, talvolta, uno o entrambi gli occhi anneriti. Non era stato sempre così, le percosse erano arrivate negli ultimi mesi; prima i rientri mattutini erano seguiti sempre da bagli caldi e profumati per togliere dal corpo le fatiche della notte e da lunghi ed intensi minuti sulla sedia a dondolo, nel salotto, con lo sguardo fisso al soffitto, dove i giochi di luce prodotti dalla vita della strada lasciavano il posto a fantasticherie e chimere, che anticipavano l'oblio del sonno. Il periodo delle percosse era iniziato da quando la macchina di Syd aveva preso a rimanere più a lungo ferma accanto al marciapiede, senza che l'uomo uscisse, ed Edda non riusciva a spiegarsi il motivo di quella sosta all'interno dell'abitacolo. Anzi nelle ultime settimane Syd rimaneva sempre più a lungo chiuso lì.

Accadde che una sera Edda scorgesse in strada il furgoncino di Joe il Matto, con il quale l'uomo faceva finta di consegnare il latte ai negozi di alimentari, anche se tutti sapevano che nelle bottiglie non c'era latte bensì whisky, e le bottiglie erano dipinte di bianco fino all'orlo, con un diversivo grossolano ma efficace. La scena che Edda vide era questa: l'auto di Syd si accostava al marciapiede e le luci dei fanali si spegnevano, il furgoncino di Joe il Matto si avvicinava e si fermava proprio dietro l'auto, una donna minuta con le treccine ed il corpo di ragazzina scendeva dal furgoncino, apriva la portiera dal lato del passeggero della macchina di Syd e scivolava furtivamente dentro, richiudendo in fretta. Quella stessa figuretta femminile uscì dopo mezz'ora, per rientrare velocemente nel furgoncino di Joe il Matto, che mise in moto e si allontanò. Quella stessa cerimonia si ripeté in seguito per altre sere ancora.

Era chiaro, a questo punto, che Syd preferiva stuzzicare l'appetito con una puttanella giovane, prima di cucinarsi a suon di ceffoni la vecchia gallina. Edda non vedeva niente di strano in questo atteggiamento, anche se in passato, dopo qualche notte brava, si era illusa di essere entrata nelle grazie del suo magnaccia. Solo, era curiosa di sapere chi fosse la bambolina. Con discrezione e qualche domanda azzeccata piazzata nei luoghi giusti del quartiere, venne a sapere che si trattava di Jill, la figlia di Joe il Matto. Aveva nove anni ed era una ragazzina, nonostante il corpo avesse dato già un notevole sviluppo. Se a Syd piaceva divertirsi con la figlia di suo cugino, questi erano affari suoi e a lei non interessavano, ma il timbro delle percosse e le tumefazioni lungo tutto il corpo stavano diventando un prezzo dolorosamente insopportabile, per quelle che, in principio, dovevano essere delle notti di divertimento. Incominciava a pensare che avrebbe volentieri fatto a meno dell'esenzione dalla pigione, pur di non passare intere giornate a letto, con il corpo spezzato dalla furia delle botte di un uomo già sazio.

La notte del giorno del ringraziamento un filo sottile si spezzò: Edda aprì la porta di casa e, con un tonfo sordo, cadde sul tappeto. Era un tappeto persiano, sul quale era solita giocare da bambina e che sua madre le aveva lasciato, prima di morire. Non riusciva a parlare, la sua voce era rimasta soffocata in gola. Un rivolo di sangue usciva dall'occhio sinistro, che era stato colpito da un pugno secco e preciso quanto micidiale. Nell'occhio era comparsa una macchia rossa, come se le avessero acceso un fuoco dentro la testa. La macchia era poi diventata nera, come se quel fuoco, dopo averla straziata, si fosse spento. Ci vollero parecchi giorni perché la ferita guarisse; alla fine rimase lo sconcio di una cicatrice che solcava tutta l'arcata sopraccigliare sinistra e attraversava il bulbo oculare. Si rese necessario il ricorso ad una benda per nascondere quell'oscenità.

Qualche giovane squattrinato si sarebbe pure potuto accontentare di una mezz'ora trascorsa con una vecchia puttana guercia, ma la sensazione di vedere con un occhio solo era terribile. Anche Syd non volle più vederla. Una conseguenza amara di quell'incidente fu che Edda dovette rinunciare al teatro, dal momento che non aveva il coraggio di presentarsi in società in quelle condizioni. Questa rinuncia le costò parecchio. La sorella maggiore di Edda, Rosie, continuò ad andare a trovare occasionalmente Syd, ed anche lei si prendeva la sua razione di schiaffi.

Una sera di marzo Rosie riferì ad Edda che quella notte Syd voleva che fosse lei a salire e che quindi era il caso di prepararsi. Edda accolse questa richiesta con uno sguardo assente, sia perché con un occhio solo riusciva ad essere sicuramente meno espressiva, sia perché quella richiesta le apparve inspiegabile. Cosa se ne faceva Syd di una sorella guercia, quando poteva sbattersi l'altra, con tutti e due gli occhi ? Si decise: un pensiero strano e risoluto le attraversò la testa ! Da quando aveva perso l'occhio anche i suoi pensieri erano diventati monchi. Si accinse a compiere il solito rito preparatorio, che tuttavia non praticava da diversi mesi, cosa che le arrecò un senso di disagio e di inadeguatezza. Prima di uscire fece la solita bevuta di bourbon, di cui, fortunatamente, non aveva perso il gusto, nemmeno nella sua vita da guercia. Poi uscì.

Quella notte un urlo lancinante attraversò tutto il caseggiato: era Syd. Edda era andata da lui con due lamette da rasoio sistemate sotto la dentiera. Quando, con gesto meccanico, prese in mano l'attrezzo di Syd e se lo cacciò in bocca, incominciò a squarciarlo in una morsa serrata, mentre fiotti di sangue colavano dalle sue labbra. In tutto questo la bocca continuava a mantenersi implacabilmente ed inesorabilmente chiusa sulla sua preda. Syd crollò sul pavimento e si dimenò come un pazzo furioso, ma non riuscì ad arrestare l'emorragia: il dolore lo aveva accecato. Così il Sindaco morì dissanguato.

Il giorno dopo, a mezzogiorno, Jack Muso di Cane e Nick Mano Mozza, uscirono dall'edificio portando a spalle un tappeto persiano: dentro c'era arrotolato il cadavere di Edda. Di colpo tutti gli equilibri nel quartiere saltarono. Ma in realtà questo non era importante: il Sindaco era morto e tutte le puttane erano rimaste orfane.

domenica 30 novembre 2008

MORALISMO

Quello che leggo, le scene a cui assisto, le parole che scrivo, quelle che ascolto e quelle con le quali riempio i miei discorsi, tutto, tutto quanto intorno a me, in questi ultimi giorni, mi dipinge una fotografia sbiadita, di persone che si muovono su uno sfondo a tinte smorte. E' il pessimismo, la mancanza di fiducia, credo. La fiducia è quell'inclinazione a ritenere che, qualunque avvenimento ci accada, abbiamo comunque nelle nostre corde la possibilità di governare gli eventi, che esiste sempre e comunque la possibilità di una via di fuga da tutti i mali. Parlo dell'Italia e di quello che percepisco nella società in cui vivo. I media, o per lo meno ciò che viene servito dall'informazione controllata (collusa?) all'uomo medio, ripetono a martello che c'è una grave crisi in corso, che le prospettive per il futuro sono tutt'altro che positive, che i mercati crollano, le aziende licenziano, le famiglie mortificate da questo ripiegamento amaro non arrivano a quella frazione di mese che viene considerata come la soglia temporale superata la quale diventa panico ciò che prima era preoccupazione (è un rilancio al ribasso, dalla quarta settimana, si è passati alla terza, ora qualche sensazionalista parla di seconda settimana). La TV, la radio, i giornali continuano a vomitare questa sinfonia crepuscolare di notizie. A volte ho la sensazione che ci siano dei sacerdoti ben avveduti che godono a celebrare questa decadenza, e tutto il tono generale è di rassegnazione, come se ci si sentisse tramortiti dalla piega che stanno assumendo gli eventi e si accettasse quello che viene raccontato come il futuro peggiore, inesorabilmente peggiore, senza avere la forza nemmeno di immaginare una via alternativa.

Possibile che in tutto questo bailamme non ci sia una voce che onestamente sia in grado di ragionare sulla trama degli eventi ? Probabilmente se qualcuno vuole tentare un'analisi oggettiva, viene coperto ed annientato dallo strombazzamento di sensazionalismo catastrofico dei sacerdoti della crisi.

Io credo che la crisi sia, prima che economica, una crisi morale: qui non vorrei essere frainteso, dato che io non lego la sfera morale alla dimensione religiosa, piuttosto che alle ideologie politiche in senso stretto. La morale può essere declinata a vari livelli e, alzando il punto di vista, essa è un un insieme di principi che guidano (o meglio, dovrebbero guidare) le attività umane, all'interno di un gruppo allargato di società, caratterizzate anche da culture diverse, per un generale miglioramento delle condizioni materiali e spirituali di tutti gli individui appartenenti a quelle società. Detto in altri termini la morale che intendo io, che forse si potrebbe definire come “naturale”, è l'insieme delle regole che dovrebbero far sì che il maggior numero possibile di persone possa vivere bene, con le risorse a loro disposizione, e che questa condizione si possa propagare alle generazioni successive. Allora, alla luce di ciò, abbiamo vissuto in una condizione di falsa morale per troppo tempo, illudendoci che il nostro modello di vita non fosse negoziabile, che il postulato della crescita indefinita dei fatturati non fosse negoziabile, che lo stato potesse continuare ad indebitarsi indefinitamente, che l'ambiente naturale fosse in grado di assorbire sempre e comunque senza ripercussioni gli effetti delle azioni dell'uomo legate a tutto questo modo di pensare e vivere. E' il capitalismo ? Non so, non direi che si tratta solo di quello, anche il socialismo, perlomeno nelle realizzazioni che si sono avute concretamente, ha portato ad un'esagerazione parossistica analoga a quella del capitalismo, anche se di segno contrario.

E' la morale che cade e non ce ne accorgiamo: perché, prima o poi, ci sarebbe dovuto essere un collasso, un punto di rottura, prima o poi la rapacità innalzata a status di primato avrebbe dovuto mostrare il vero volto dell'ipocrisia: non si può continuare all'infinito a depredare, ad ignorare gli effetti negativi di un'epoca di scelte sbagliate, dettate dall'egoismo. Prima a poi la benzina finisce e la macchina si ferma. E la globalizzazione, con i suoi cortocircuiti planetari, non ha fatto altro che accelerare il processo di crisi. Bisogna ritornare ad essere moralisti, ma della vera morale, bisogna riscoprire la centralità dell'umanità, riportarla al fondo vero delle scelte politiche, soprattutto non lasciare che ci impongano una visione della realtà che è sempre ad uso e consumo dei soliti oligarchi. Riscoprire la centralità dell'umanità significa anche capire che le azioni e le scelte collettive hanno una dimensione in cui il pianeta è il sottofondo ineliminabile, per cui i ragionamenti devono tenere conto anche delle relazioni ambientali. E allora, di fronte al fondo pessimistico che viene dipinto, possiamo decidere di rimanere a bocca aperta e mangiare il cibo premasticato che ci viene passato oppure incominciare a modificare atteggiamento e reagire, alla luce di una morale nuova da costruire, migliore della precedente. Il punto è tutto qui. E incomincia da ognuno di noi. Non ho la risposta ai grossi interrogativi che ci attanagliano, dico solo che il riscatto deve incominciare dal basso, non mi aspetto nulla dalle classi dirigenti di qualunque tipo e colore, colluse con il passato.

venerdì 14 novembre 2008

Instant Karma - Il battito

Il ROCK come lo intendo io: un paio di occhialini gialli o azzurri inforcati su un naso adunco, la voce graffiante che buca le note, il pianoforte e la batteria che si producono in un ritmo quasi monotono, un'allucinazione tribale che ripete ad ogni battito, uguale ma sempre diverso, lo stesso urlo. Solo John Lennon pote fare una canzone simile. Un instant karma verrà a prenderti e ti picchierà dritto in testa e tu farai meglio ad unirti alla razza umana: il testo è così semplice ed immediato che ti colpisce come uno schiaffo: il rimbombo che monta sul susseguirsi del piano e della batteria è come una folla anonima che ti travolge via dall'isolamento delle false certezze. Instant Karma, verrebbe voglia di continuare a ripetere, anche se magari non significa nulla. Erano secoli che non ascoltavo questo brano: uno dei pezzi che fanno la leggenda di John.

Questo brano nacque come un'invenzione fulminea. John diceva: "L'ho scritto a colazione, registrato a pranzo e pubblicato a cena", e, a parte l'iperbole, fu un pezzo che si sviluppò in un solo giorno, forse meno. E' potente anche il filmato del Live in NYC.


In questo pezzo sta tutta l'anima del rock, che è urlo, percussione ripetitiva, folla, mani in alto e teste che si agitano, e sudore, e mente svuotata. Come in un instant karma appunto!

mercoledì 12 novembre 2008

JOE



Joe è andato: un brutto cancro lo ha consumato in un pochi mesi.
Sembra che gli animali non soffrano una dolorosa agonia, semplicemente vivono il loro tempo e poi vanno. Doveva morire a febbraio scorso, secondo le previsioni del veterinario, invece la sua fibra era molto più forte, la sua fiamma molto più vitale.
Ieri non riusciva a reggersi sulle zampe e guardava mio padre con appassionati sguardi di commiato. Poi ha chiuso gli occhi e ha iniziato a spegnersi.
Stamattina il veterinario gli ha fatto l'anestesia. Poi una siringa. Ha finito di soffrire.
Ha vissuto come voleva. Non so se esista il paradiso dei cani, so che per tanti anni è stato un amico insostituibile, soprattutto per mio padre.
Addio Joe! Ti abbiamo voluto bene e tu ne hai voluto a noi.

sabato 1 novembre 2008

KINGDOM COME

"Kingdom Come" è la storia del doloroso percorso di redenzione dell'umanità e dei suoi semidei, attraverso il crepuscolo della mancata distruzione totale. Un supereroe, il più grande di tutti, Superman, perde la fede nella propria capacità di proteggere gli uomini, in una società che privilegia sempre più il ricorso alla violenza come sottofondo prevalente delle relazioni. Abbandona la mischia, per usare un'espressione sbrigativa, e si ritira a vita privata, lasciando terreno libero ad una nuova genia di "metaumani" (così sono chiamati gli esseri dotati di abilità che superano quelle della loro specie) violenti e irrispettosi della vita.

"Kingdom Come" è un lavoro che si colloca all'apice della creatività di due artisti della graphic novel, Mark Waid alla sceneggiatura ed Alex Ross ai disegni. Quest'opera, vera tappa miliare della storia del fumetto, risale al 1996.

La domanda di fondo è: che cosa succederebbe se gli uomini si rifiutassero di farsi proteggere da Superman e da tutti gli altri eroi positivi (Wonder Woman, Flash, Aquaman, Lanterna Verde, ecc.), se decidessero, come è giusto, di autodeterminare il proprio destino rinnegando le pulsioni del loro inconscio collettivo verso il mito? Perchè i supereroi questo sono: la proiezione all'esterno dell'aspirazione ancestrale a non morire e ad essere divini. I supereroi classici, dotati di tutte le qualità positive, sono messi a guardia dell'umanità, ne dirigono il cammino verso le sorti progressive. Quando al loro posto si sostituiscono altri guardiani, privi del rispetto per la vita, che, sfidandosi in atroci combattimenti, mettono a repentaglio l'incolumità delle persone normali, la guerra come prigione oppressiva, la fragilità delle esistenze diventano la costante delle vite di tutti. Così il cielo si oscura, il genere umano può continuare ad esistere solo attraverso la morte dei suoi oppressivi custodi. Oppure attraverso il miracolo del ritorno del suo eroe più grande, Superman. Messa insieme una milizia dei vecchi supereroi, Superman, persegue i nuovi supereroi attraverso una caccia spietata, che lo porta a rinchiudere in un Gulag, quelli che non riconoscono la sua autorità e si ribellano al nuovo dogma di ordine e disciplina.

"Kingdom Come", per questo, è anche un racconto forte di un aspro conflitto generazionale tra vecchi e nuovi, tra personaggi in calzamaglia e personaggi con costumi addobbati di borchie, punte metalliche, maschere paurose, tatuaggi e, in generale, di tutto l'armamentario del look punk/postmoderno. Un conflitto che può finire solo con l'estinzione, se non fosse per l'intervento di Norman McCay, un settantenne pastore protestante, forse il vero Eroe della storia, che segue tutte le storie all'interno della trama, trovandosi in tutti i luoghi determinanti, per testimoniare. La testimonianza riguarda il recupero della coscienza dell'uomo attraverso lo spettacolo inerme della distruzione. Quando questa è imminente, solo una persona vecchia ed inerme, può emettere l'ultimo grido prima che avvenga l'irreparabile.

Ho letto questa storia in quattro puntate quando è uscita, più di dieci anni fa, e sono rimasto sconvolto da quanto complesse si fossero fatte le tematiche dei fumetti. La narrazione è epica ed avvincente. E poi c'è Batman, l'eroe negativo, invecchiato, a differenza di Superman, per il quale il tempo scorre più lentamente, Batman, che realizza l'ideale di giustizia attraverso l'imperfezione della paura e sotto la spinta di tutte le più inconfessabili manie dell'animo umano. Il tutto è imperdibile.

mercoledì 29 ottobre 2008

I limiti del PIL

Questo discorso fu pronunciato da Robert Kennedy il 18 marzo del 1968, all'Università del Kansas. Tre mesi dopo fu assassinato.

Ho ascoltato queste parole decine di volte, scoprendo ad ogni ascolto una nuova ragione per non desistere dal credere che la Politica è una pratica alta che può ancora spingerci a realizzare i nostri ideali.
Sono giorni difficili, in cui la vera oppressione, che ci chiude lo sguardo, proviene dalla crisi, etica prima che economica.
Ecco ... quando ascolto parole come queste, posso ancora continuare a sperare che ci possa essere una soluzione migliore e più giusta ai problemi, veri, che ci attanagliano, posso ancora tenere fermi gli ideali di una vita, ed anzi rinforzarli con nuove energie.
La Politica è molto migliore della falsa rappresentazione catodica cui assistiamo quotidianamente. Essa, quando è vera e non contraffatta, si mescola con la nostra carne ed il nostro sangue, e soprattutto, per agirla, basta uscire fuori, nella strada.

sabato 18 ottobre 2008

TONY BENNETT & K.D. LANG - Because of You

(Lyrics by Arthur Hammerstein and Dudley Wilkinson)

Because of you there's a song in my heart
Because of you my romance had its start
Because of you the sun will shine
The moon and stars will say you're mine
Forever and never to part

I only live for your love and your kiss
It's paradise to be near you like this
Because of you my life is now worth while
And I can smile
Because of you

I only live for your love and your kiss
It's paradise to be near you like this
Because of you my life is now worth while
And I can smile
Because of you

domenica 12 ottobre 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. V

(L'immagine sopra rappresenta un quadro di Federica Mazzeo ed è pubblicata su questo blog dietro sua gentile concessione)

Mi chiamo Vladimiro Cicogna ed è sera. Sto pedalando. Forse inseguo una donna che può darmi delle risposte, ma ho dimenticato le domande. E’ sera, in modo impressionante qui a Copenaghen, in questo inizio di settembre che non dimenticherò, l’aria tersa e fresca, come una ruvida mano che carezza la pelle scoperta. Mentre le ruote della bicicletta scorrono sull’acciottolato del Nyhavn, gli occhi luccicano di piacere alle luci sfocate del molo. Il viaggiatore, che capitasse da queste parti ora, potrebbe non aver voglia di andarsene più. Intanto la donna è lì, sempre alla stessa distanza, che pedala, ignara dell’inseguimento ed io ho la sensazione che una forza volatile mi spinga in maniera impalpabile, tanto le mie gambe si muovono leggere. E’ ancora la città che mi aiuta a vivere la notte a modo suo, perchè ci sono delle leggi che io, straniero – non lo dimentico – sono tenuto a rispettare.
Penso all’ultima sigaretta, fumata in treno, alcuni mesi fa, mentre partivo da tutto ciò che ero stato in precedenza. Era la mia città che abbandonavo, e in quel momento mi imposi di sperimentare la malinconia dell’abbandono, un sentimento molto teatrale. Percepivo la solennità del momento, ma soprattutto, nella parte più vera di me, morivo, chiudevo un’esistenza come il cerino che avevo appena buttato. Tiravo ampie boccate. Non sapevo cosa avrei fatto nei giorni seguenti, però le catene, il sordido lavoro, il sordido ufficio, il direttore del dipartimento, con i suoi rimbrotti sempre più frequenti – e, da ultimo, anche la minaccia di una lettera disciplinare –, i faldoni, la donna dell’edificio di fronte, unica piacevole consolazione delle mie giornate ugualissime, e spesso anche dei miei pensieri notturni, tutto questo stava scivolando indietro. Irrimediabilmente. Non lo sapevo, ma lo sentivo e lo volevo. Perchè lì non ci sarei più ritornato. Addio Roma, adieu!
Mentre mi avvicino al castello di Rosenborg, una sferzata di vento gelido mi riporta sulla terra. La donna attraversa il parco ed io rallento perchè la vita tutt’intorno si è molto attenuata, non c’è più nessuno, i rumori vanno dosati altrimenti lei mi sente e si accorge di questo gioco. Tuttavia anche in lontananza la tengo d’occhio, non può sfuggirmi.
Ad un tratto si ferma, lascia la bicicletta ed incomincia a scendere le scale di quello che sembra un gabinetto pubblico, o un passaggio sotterraneo. Mi affretto anch’io e subito sono al buio, quello vero, senza scampo. Riscopro le vecchie fobie, mentre procedo a tentoni in quello che sembra un lungo e fumoso corridoio. Sento gocciolare da alcuni punti del soffitto. Non dovrei essere qui sotto, non era questo il finale d’atto che mi immaginavo, mentre lentamente seguo il tramestio dei passi in lontananza. Non saprei nemmeno dire se sono i passi della donna, oppure di qualche creatura sotterranea che in qualsiasi momento potrebbe sentirsi autorizzata a sbudellarmi. Per un istante rimpiango la polvere dei faldoni. Mi convingo che se raggiungo la donna, poi sarei al sicuro, anche se il trovarci lì sotto entrambi mi obbligherebbe quanto meno ad inventarmi una scusa plausibile.
Ad un certo punto giungo ad una svolta del tunnel. Ma cos’è questo? Possibile che in Danimarca qualcuno si sia ingegnato a costruire una viabilità sotterranea? Ho perso la nozione dello spazio, mentre vado brancolando, mi sembra di trovarmi davvero in una città sotto terra. Il lavorio del mio cervello si fa sempre più doloroso, i ragionamenti seguono l’esito tortuoso dei passi. Credo di cambiare, obbligato, più volte direzione ed è come se stessi macinando chilometri là sotto, attraverso piazze, incroci, portici, in una ragnatela di passi guidati dalla parvenza di uno scalpiccio sempre più flebile.
Poi, all’improvviso, un secco dolore mi scaraventa al suolo. Una mazzata, qualcuno mi ha colpito alla testa con un pugno. Rimango giù, disteso supino, e questo mi serve per recuperare un pò di lucidità. Chiunque mi abbia colpito, in qualunque momento può finirmi, farmi male sul serio. E pensare che nel pomeriggio ero entrato nella Marmorkirken per aumentare il senso di pace che ultimamente stavo vivendo in città.
Visto che sono ancora vivo e cosciente, mi rialzo e decido di proseguire: la testa mi duole ancora, ma, nel dolore, penso che il peggio è passato. Solo che camminare è diventato maledettamente difficile, sento le gambe come due cariatidi, mi ci vorrebbe la convinzione di un elefante per trascinarle. Raccolgo tutte le dosi sparse della mia, di convinzione, quella che mi permetteva nei momenti di trionfo di sbrigare le pratiche nel minor tempo possibile, e la concentro in pochi passi decisi. Forse riesco a farcela. No! Un colpo ancora più violento del primo mi atterra nuovamente. Fine di tutto. Almeno per ora.

lunedì 6 ottobre 2008

LA SCATOLA


Porto sempre con me la mia scatola, la tengo sempre in tasca. E' il mio salvavita, tutta la mia speranza è racchiusa in quel piccolo contenitore. Spesso lo accarezzo e ripenso alle parole dell'ipnotizzatore, in quella mattina del '45, con le macerie dei bombardamenti fuori della finestra che non lasciavano scampo ai desideri di resurrezione dei pazienti del manicomio. Io ero tra quelli. Le truppe alleate erano appena sbarcate in città e gli occupanti tedeschi erano fuggiti, sotto l'incalzare di quelle, non senza lasciare qualche cadavere sulla strada, per eccesso di zelo. Sembrava che la tenaglia dei giorni più bui dell'occupazione si potesse allentare, che davanti a tutti ci fossero finalmente i giorni della riabilitazione dopo la sofferenza. Eppure fuori faceva freddo e molti di noi, me compreso, non erano riabilitati, non erano pronti alla vita fuori. Le brande e le camerate, i corridoi freddi e i tegami unti senza niente da mangiare dentro erano tutto quello che avevamo e ci sembrava abbastanza di fronte alla fragilità delle nostre paure. Anche il sadismo di alcuni infermieri ci sembrava tutto sommato preferibile a quello che ci aspettava.

L'ipnotizzatore, come io lo chiamavo, era un medico, forse nemmeno quello, alcuni sussurravano che fosse uno studente di medicina. Era tra i pochi del personale del manicomio che nei giorni precedenti non se l'era data a gambe, per timore che i tedeschi, nella furia degli ultimi rastrellamenti, facessero piazza pulita anche di questo posto. Quando vide che molti di noi erano in preda a frenesie incontrollabili e che la situazione sembrava precipitare, ricorse a tutti i pochi mezzi che aveva per cercare di tirarci fuori dal baratro. Che era soprattutto il disordine causato dalle grida laceranti dei matti impauriti. Uno di questi mezzi era l'ipnosi appunto. Con molti funzionava, ed ha funzionato anche per me.

Non ho molto da raccontare, la mia giovinezza era cresciuta come un albero storto, che non si apre completamente al sole e all'aria. Ero asfittico. Mi avevano reso così le malattie, prima quelle fisiche, poi la fissazione mentale che era la più infelice e dolorosa tra tutte. Delle prime non ho molto da dire se non che il mio fisico era gracile e alcune delle normali malattie, che attaccano i bambini senza conseguenze, avevano lasciato su di me dei segni pesanti, che si erano riflettuti in difficoltà crescenti a far funzionare per bene la testa. Capivo poco di quello che gli adulti mi dicevano e spesso rimanevo immobile, come se qualcosa nella mia mente si fosse inceppata. Rimanevo immobile fino a quando qualche colpo ben assestato, da parte di mia madre o dei miei fratelli, mi faceva passare dalla quiete del nulla al significato del dolore.

Conobbi Vittoria. Fu un autentico sguardo fortunato quello, che avrebbe significato tanto per gran parte della mia vita successiva. Vittoria era una ragazza, credo della mia stessa età, forse uno o due anni più grande, la cui famiglia era venuta verso la fine degli anni Venti ad abitare nel cascinale confinante con la proprietà di mio padre. Gente benestante, si diceva, non so, non mi interessava. Di sicuro la sua presenza, le sue passeggiate lungo la strada vicinale erano momenti di euforia per me. La vedevo, bella, veloce, diversa da tutte le figure che avevo conosciuto, e la mia testa era presa da singhiozzi che acceleravano i miei pensieri in un turbinio di emozioni incontrollate. Quando la incontravo per strada, ero una persona normale, come tutti, la furia che avevo dentro di parlarle mi faceva sembrare calmo e sicuro. Facemmo amicizia. Lei sembrò disinteressarsi delle voci in paese che dicevano che ero lo scemo, o uno dei tanti. Era una ragazza libera da condizionamenti e sicuramente buona, nella maggior parte degli atteggiamenti. Camminavamo spesso insieme, oppure rimanevamo seduti su qualche grosso masso, senza dirci niente, perchè per noi parlavano gli sguardi e il silenzio. O perlomeno a me era sufficiente quello. In qualche momento ci siamo baciati ed io pensavo che non dovevo temere nulla, che potevo fare tutto. Pensavo all'amore e mi illudevo che quel tempo infame in cui tutti e due vivevamo, pieno di torture, di urla, di storie clandestine di uomini e donne picchiati e messi in prigione, fosse tutto sommato non così cattivo come mio padre raccontava. Mio padre non era d'accordo con il regime e spesso commetteva l'imprudenza di alzare la voce di fronte agli estranei. Una notte fu portato via, fu prelevato dal letto e non l'abbiamo più rivisto. Nei mesi successivi a quell'incidente, la famiglia di Vittoria si offrì di aiutare mia madre a tirare avanti di fronte alla situazione terribile che la mancanza di mio padre aveva creato; io pensavo che dovevo essere grato a mio padre perchè, con quella sua uscita di scena, io ero quasi entrato nelle consuetudini della casa di Vittoria. Trascorrevo gran parte delle mie meditazioni lì, spesso nella stanza di lei, che sfogliava riviste di moda mentre io la guardavo, di fronte al camino acceso. Mi sembrava che il fuoco, nel suo ondeggiare, quasi imitasse il movimento dei suoi capelli. Allora capivo tutto. Capivo così tanto che una sera mi sembrò la cosa più naturale del mondo dirle che l'amavo e chiederle se anche lei mi amava. A Vittoria sembrò la cosa più naturale rispondermi che io ero una delle persone a lei più care, che non credeva a quello che si diceva sul mio conto in paese, ma che no, non mi amava, che l'amore era una cosa seria e che non si può provare a diciassette anni, e poi sicuramente la sua famiglia non avrebbe approvato. Lei aveva altri piani per il suo futuro, l'Università, poi forse qualche anno all'estero. Eravamo così diversi, mi diceva, mentre sorrideva amabilmente, come a volermi convincere che nemmeno io potevo credere a quello che le avevo rivelato. Eravamo diversi, ma per lei era bello ed interessante avermi tra sue amicizie, perchè ero un ragazzo gentile e il mio cuore era buono.

Aveva ragione. Me lo chiedevo ripetutamente: aveva ragione? Da qualche parte nel mio cervello c'era uno straccio di spiegazione che non sapevo ricostruire, ma che mi faceva pensare che lei fosse la persona più ragionevole, tra i due. Ero pur sempre uno scemo, ma nei giorni, settimane, mesi che seguirono ero sempre un pò più inceppato rispetto alla scioltezza dei movimenti di quando camminavamo insieme senza che io avessi grilli per la testa.

Nell'autunno del 39 ci fu un taglio inaspettato quanto lacerante per me: la sua famiglia decise di trasferirsi a Firenze, dove erano proprietari di una bella casa signorile e di un negozio di pellami. Il padre pensava che i suoi affari avrebbero beneficiato se ci fosse stato lui a seguirli direttamente anzichè ricorrere ai soliti intermediari, come aveva fatto fino ad allora. E poi non poteva permettersi di stipendiare gli stessi dipendenti di prima, se ci fosse stato lui, si sarebbe potuto fare a meno di almeno due attendenti. In un giorno di ottobre Vittoria uscì dalla mia vista. Mi salutò stringendomi la mano e illuminando il mio viso incerto con uno sguardo sereno, inespressivo. Pensavo a quando ci baciavamo seduti sul muretto, le sere d'estate. Da quel momento Vittoria non uscì più dalla mia mente, ero rimasto come fissato sull'ultima immagine e, cosa più fastidiosa per mia madre e i miei fratelli, ero caduto in uno stato di immobilità. Ero una specie di corpo inerte e questo era un problema per la mia famiglia, che in quel momento difficile non poteva sostenermi in vita, mentre tutti correvano per procurarsi il cibo che scarseggiava e l'eco dei bombardamenti si faceva più vicina. La repressione dovuta alla scarsità di mezzi e alla cattiveria degli uomini non permetteva, è vero, di tenere in casa un malato mentale, specie in una casa da lungo tempo priva del pilastro fondamentale.

Così fui rinchiuso. Imparai a pensare un pò meno a Vittoria ed a considerarmi nella realtà soprattutto per effetto delle grida e dei lamenti degli altri pazienti del manicomio. Veramente a quei tempi ci chiamavano matti.

La mattina del mio rilascio, fui chiamato nella stanza dell'ipnotizzatore che mi fece stendere sulla solita branda e, dopo avermi riempito la testa di immagini altalenanti e di scintillii che mi confondevano, mi parlò con tono tranquillizzante. Conosceva la mia storia, era tutto scritto nella mia cartella clinica. Il nome di Vittoria era segnato come se fosse un sintomo della mia malattia. Mi guardò fisso in mezzo agli occhi mentre mi parlava: non ricordo bene, a distanza di tutti questi anni e con la mia memoria che era già debole allora, il senso del suo discorso. Nelle mie orecchie si fissarono le ultime parole che uscivano dalla sua bocca mentre mi consegnava una scatolina. La mia mente rimbombava di immagini e suoni e rumori che formicolavano come uno sciame di ragazzini urlanti in una corsa sfrenata. Tutto questo cessò quando l'ipnotizzatore, alludendo al contenuto della scatola, mi disse che avrei dovuto aprirla solo quando mi fossi sentito in grado di incontrare di nuovo il mio amore. Vittoria era lì dentro e questa sola certezza avrebbe reso i miei passi più sicuri, o comunque quando mi fossi sentito perduto, annientato, schiacciato, avrei dovuto pensare alla scatola, a quella scatola stretta nelle mie mani, oppure al sicuro nelle tasche. E se anche non avessi avuto di che sfamarmi, o fossi caduto nella disgrazia degli uomini, fino a quando fossi stato in possesso della scatola, sarei stato salvo. Sembrava poco, ma per me fu tutto. E non avevo bisogno di rimanere immobile col pensiero su Vittoria, perchè lei era lì con me.

Uscii dal manicomio, non avevo nessuno da salutare lì dentro, presto l'edificio fu lontano alle mie spalle. Gli anni sono passati, non so quanti, so solo che il mio cervello sembrava invecchiare più rapidamente di me, tanto che ad un certo punto dovevo sforzarmi molto per ricordare cosa dovevo fare. I volti erano tutti uguali, soprattutto l'espressione di sopportazione sulle loro facce era sempre la stessa. Ero un ingombro. Sono stato in molti luoghi che ora non ricordo più, in case di cura, ospedali, ambulatori, il più delle volte avevo attorno uomini e donne in camice, sempre affaccendati. A volte credevo, spesso ne ero sicuro, che quello zelo non era per me. Ho fatto mestieri, tutti dove non era richiesto di pensare e che non richiedevano movimenti complicati, sempre camminando dietro qualcuno che mi dava ordini. Ho dormito e mangiato in posti diversi, a volte con altri come me, malati mentali, altre volte con sani, sempre mi sentivo solo. Ora che mi sento vecchio, non so nemmeno se lo sono davvero, mi sforzo ogni giorno di essere pronto ad incontrare il mio amore. Ho sempre cercato di capire come potevo fare ad essere pronto, sempre mi arrendevo di fronte alla mia impotenza ma, alla fine delle mie sofferenze, c'era lei, la scatola, la certezza più grande. Lei mi teneva in vita. Ho pensato di barare talvolta, e di aprirla, ma il terrore mi paralizzava: cosa sarebbe successo se lei non fosse venuta?

Vittoria, amore, è incredibile come l'amore possa far diventare sano anche un malato mentale, io non sono stato molto nella mia vita, tutto quello che sono stato lo devo a te. Dicesti di non amarmi, che non potevi amarmi, perchè i tuoi progetti erano grandi e vividi, e scorrevano nelle tue vene decisi, come decisa e salda era la tua vita. Io non sapevo nemmeno cosa fossero i progetti. Non aveva importanza però, io ti amavo, perchè eri la cosa più bella che mi era capitata, era l'amore di uno solo, ma pur sempre amore era e io non volevo rinunciare. Per tutto questo tempo ho viaggiato come un treno che andava a zero all'ora, tutto scorreva attorno a me, ma tu, tu ci sei stata sempre, nella scatola. Il mio cuore è lì dentro, con te, ed anche se oggi o domani morirò – è da qualche giorno che mi sento molto debole – la scatola si conserverà, tu ti conserverai. E nel mare di cose che ho dimenticato, la sola che ricordo è quella che mi spalancherà davvero le porte del manicomio.

martedì 30 settembre 2008

IL PICCOLO INCENDIARIO

(Libero adattamento da "La Piccola Fiammiferaia" di Hans Christian Andersen)



C'era una volta Stan, un piccolo bambino di trentotto anni che viveva allegramente nel paese detto Das Narrenschiff, così chiamato perchè la gente che lo abitava non era poi tanto normale e le case e i sentieri erano sospesi su una laguna, cioè galleggiavano.

Stan di mestiere faceva il carpentiere ed era quasi sempre immerso nell'acqua lagunare, intento a riparare i pali delle costruzioni oppure ad aggiungerne di nuovi. Era bravo nel suo lavoro, così bravo da essere malpagato. E questo forse era un bene, perchè quando il capomastro lo pagava, dopo avergli contato le banconote davanti agli occhi, ne faceva un mazzetto e gliele stracciava davanti, lasciandole cadere per terra. Stan doveva raccoglierle e poi attaccarle con il nastro adesivo. Era un tipo tollerante il nostro, sempre disposto a sdrammatizzare; e poi il mal di schiena causato dall'umidità – lavorava quasi sempre con il busto immerso nell'acqua – non gli lasciava molto tempo per dedicarsi ad altro.

Stan aveva un personalità abbastanza brillante, cioè la mente era accesa e spesso fantasticava sugli esiti probabili della sua condizione, che in realtà non lasciava presagire nulla di buono. La sua compagnia era molto ricercata dalle donne di Narrenschiff, che lo preferivano ai loro mariti, sessualmente molto attivi per loro, ma intellettualmente deludenti. Le donne sposate, e non, si divertivano a trascorrere le mezz'ore in sua compagnia – a volte anche le ore – e non si pentivano mai per questo. Poi, siccome ovviamente dovevano anche appagare i propri bisogni corporali, quando tornavano a casa dai mariti, avendo già soddisfatto i propri appetiti spirituali, si ponevano con più foga nel soddisfacimento di quelli carnali.

Stan, nonostante il grande richiamo della sua personalità, non riusciva ad avere presa permanente su nessuna delle ragazze che lo interessavano, e questo talvolta ne faceva scemare la presenza di spirito; sicuramente il più delle volte lo intristiva. Deciso a risolvere questo suo problema, si rivolse alla moglie del capomastro, che esercitava l'arte di conoscitrice di sguardi, cioè guardava in faccia le persone e sapeva dire come erano fatte, ossia il loro carattere, e cosa gli sarebbe capitato. Guardando in faccia Stan, la moglie del capomastro non riuscì ad impedirsi di pensare che il bambino era, in verità, non proprio bello, cioè un pò bruttino, ma non voleva, da persona di tatto quale era, dirglielo direttamente. Gli disse che lui aveva sempre la tendenza a stemperare gli avvenimenti brutti, ad annacquare i dolori – e infatti nell'acqua stava -, mentre ogni tanto gli avrebbe fatto bene lasciarsi andare all'ira; fuor di metafora, non riusciva a riscaldare le donne perchè non aveva calore dentro e non poteva uscire fuori quello che dentro non c'era. Stan uscì dalla casa del capomastro e, ruminando su quel giudizio, pensò che non era forse d'accordo e, per sottolineare questa sua risoluzione, prese un grosso sasso e lo lanciò contro la vetrata principale della casa, quella illuminata dal magnifico abat-jour. Ecco, per la prima volta non aveva sdrammatizzato, si era abbandonato alla prima reazione. E siccome la megera gli aveva diagnosticato la mancanza di caldo, tirò dalla tasca un barattolo di pece e con l'accendino ne accese un pezzetto che aveva spalmato su un rametto, facendosi una piccola torcetta. Dopodichè la prese e la lanciò, attraverso la finestra rotta, all'interno della casa del capomastro, che essendo costruita tutta in legno, con le pareti ricoperte di carta fiorata ed i pavimenti di tappeti, bruciò tutta splendidamente in meno di mezz'ora. Stan non vide il capomastro e la moglie correre fuori per mettersi in salvo, comunque non gli importava. Quanto al danneggiamento dell'immobile, calcolò che grosso modo equivaleva a tutte le creste che il capomastro aveva fatto sulle sue paghe. Quindi erano pari. La casa bruciò di un bel falò. I pompieri non arrivarono, perchè in Narrenschiff non c'era una squadra di pompieri, dato che la città era costruita sull'acqua e quindi, in un modo o nell'altro, l'acqua della palude avrebbe spento gli incendi. Il borgomastro giudicava così che il municipio avrebbe risparmiato un sacco di soldi e, con gli aumenti alle tasse, le casse dell'erario si sarebbero rimpinguate di anno in anno. Siccome poi il bilancio delle entrate doveva essere lo stesso ogni anno, il bravo amministratore prelevava il surplus e lo teneva per sè.

Il falò della casa del capomastro era stato davvero bello. Stan pensò che lo spettacolo si poteva ripetere, tanto per non annoiarsi. Una cosa era sicura, la moglie conoscitrice di sguardi aveva preso una grossa cantonata con lui; infatti se era stato capace di far sprigionare all'esterno tutto quel calore, doveva averne altrettanto all'interno. Stan pensò che aveva delle buone speranze con Fiammetta, la donna per cui spasimava. Inoltre si disse che se avesse riflettuto anche solo un pò sul nome di lei, si sarebbe risparmiato la parcella della megera. Ma tant'è! Il prossimo bersaglio decise che doveva essere il borgomastro: c'era una ragione! L'ultimo anno aveva lavorato quasi sempre sotto la sua casa, per una serie di interventi, prima di riparazione, poi di espansione, aggiungendo alla casa originaria tutta una serie di piattaforme e di pali sotto. Insomma espandi oggi, espandi domani, la modesta abitazione dell'austero amministratore era diventata grande quanto un rione. E siccome si trattava del borgomastro, il capomastro lo aveva costretto a lavorare senza sosta per un anno intero. Va bene l'essere pagati poco, ma almeno il tempo libero doveva essere salvaguardato. E invece no, aveva lavorato sedici ore per ogni giorno. Cosa fece? Entrò in un capanno degli attrezzi, collegato con il complesso edilizio del borgomastro, ed inserì nella condotta dell'aria un grosso mantice, con il quale insufflò nella condotta, di legno, del gas incendiario. Poi si allontanò ad una distanza di sicurezza, uscendo dal capanno, e attraverso la porta aperta lanciò la solita torcetta, che con mira perfetta andò ad inserirsi proprio nella condotta di areazione. I fuochi di artificio si sprigionarono nel cielo, con grande spettacolo e paura degli abitanti di Narrenschiff – qualcuno si divertì, anzi, per non smentire il nome della città, parecchi, sotto l'incalzare delle fiamme che piovevano dal cielo, dettero di matto ed incominciarono a correre nudi per le strade, gridando come tori nella festa di San Firmino a Pamplona.

La casa di Fiammetta era su una palafitta in periferia, in un quartiere isolato che non fu toccato dal propagarsi delle fiamme borgomastrali, che avevano attaccato tutte le abitazioni dei vicini arrondissement. No, quella casa era al sicuro e Stan, sempre quella stessa notte, pensò di far visita alla donna dei suoi sogni, per mostrarle il nuovo corso. Voleva farle vedere che non era più solo un brillante conversatore, ma un maschio a tutto tondo, caldo come un panetto appena sfornato. Quando però fu giunto a destinazione, decise che, anzichè chiamarla, rivolgerle parole lievi, insomma tutte quelle finte cerimonie che tanto felici fanno le donne, avrebbe ottenuto un effetto migliore se avesse sprigionato il fuoco che c'era dentro di lui. E si rafforzò in questo proposito quando si accorse, da gridolini intenti ed estatici, che Fiammetta non era sola, ma in compagnia di un uomo, sicuramente un suo familiare pensò Stan, magari un cugino. Così radunò paglia e fieno e sterpaglie in un grosso covone davanti alla casa e gli dette fuoco. Le sprizze zampillavano in aria come impazzite ed alcune – Stan non aveva calcolato bene il vento – caddero sul tetto della casa di Fiammetta, con le conseguenze che si possono facilmente immaginare. A Stan dispiacque che la sua disattenzione avesse causato l'inavvertito incendio della casa di Fiammetta; poi si dispiacque di meno quando vide un uomo fuggire dalla finestra coperto solo delle brache e la ragazza correre nuda per buttarsi in acqua. Stan pensava che lei, dopo questa dimostrazione di ardore, avrebbe finalmente accolto i suoi profferti d'amore. All'indomani, la città si risvegliò come un tizzone fumante, dato che le case si erano comunicate l'incendio le une con le altre, e Stan si rese conto di non avere più un lavoro. Nemmeno la casa aveva più, dato che la sua distava poco da quella del borgomastro. Pensò che non doveva preoccuparsi granchè, tanto poteva sempre andare a lavorare nel borgo vicino come incendiario – se quella professione non c'era ancora, se la sarebbe inventata. Tanto ora era sicuro di sè, avendo scoperto che possedeva l'ardore e di questo un pò avrebbe dovuto ringraziare la conoscitrice di sguardi.

venerdì 26 settembre 2008

LA BANDA DEGLI JUNGHIANI

ERASMO: Signori, basta con la caciara, su, veniamo al tema della riunione ... che è quello di trovare un rimedio alla situazione precaria in cui il nostro Ordine versa, ormai da lungo tempo! (sigh) Il collega segretario ci mostrerà ora alcune cifre, così capiremo tutti che è finito il tempo di scherzare! Dico anche a lei signorina: sembra che quello che stiamo per dire non la interessi, per quanto ha da confabulare con la sua collega accanto!

ORNELLA: No, niente ... è che stavamo dicendo appunto ... che non si può andare più avanti, così! Con questa fuga di pazienti! Pensi che l'altro giorno, il commendator ...

ERASMO: I commenti a dopo. Ora la relazione del collega segretario dell'Ordine! A lei la parola, prego.

RAGIUNATT: Beh ... io avrei preparato una presentazione col PC. Posso farvi vedere delle slides.

ERASMO: Non abbiamo il proiettore, in stanza.

RAGIUNATT: Cioè ... come no? Ce n'era uno bello grosso ... e come si vedeva bene!

ERASMO: Si è rotto e non ci sono i fondi per ripararlo! Ne faccia a meno!

RAGIUNATT: Beh ... ma io non ho stampato niente ...

ERASMO: Non fa nulla. Legga dal suo portatile!

RAGIUNATT: Ah ... veramente ... non l'ho portato ...

ERASMO: E come pensava di fare senza?

RAGIUNATT: Beh ... cioè ... ho portato la pennina USB ...

ERASMO: E quindi?

RAGIUNATT: Cioè ... la inserivo nel computer dell'Ordine ...

ERASMO: Ma se non ce l'abbiamo il computer all'Ordine?

RAGIUNATT: Ah no? Cioè ... mi sembrava di sì, invece. Ma quello che stava in questa stanza, sul banco all'angolo?

ERASMO: Mi hanno riferito che aveva il virus!

ORNELLA: Pure lui?? Non si salva nessuno, è un'epidemia!!

PROCTOR: Una pandemia, mia cara! Lo hanno detto nell'inserto medico del TG. Quest'anno sono cazzi nostri, chè se ti ammali non puoi ricevere i pazienti!

ERASMO: Per favore! Questa è una riunione seria.

PROCTOR: Più serio di così. Proprio di pandemia si tratta!

ORNELLA: Comunque, presidente, il computer non ci sta più, perchè uno dei pazienti della collega lo ha rotto! Per essere precisi!

MARIA-ERPICE: No, la signora Gertrude ... non lo ha rotto ... lo ha preso ad ombrellate! Perchè non voleva accettare l'estrusione del senso di colpa lesbico. E poi, ha detto che non mi pagava più. Povera! ... Beh, anche stronza ... oltre che lesbica!

ERASMO: Collega segretario, vada avanti! Ci faccia la relazione!

RAGIUNATT: Beh ... ma è una parola ... c'erano un sacco di cifre: e chi se le ricorda?

ERASMO: Ci dica il senso generale. Poi, domani distribuirà delle copie ai presenti, agli assenti ... ed anche a quelli che non seguono, perchè parlano con la vicina!

ORNELLA: Presidente, lei è da un pò che fa le battutine! Qui siamo tutti stanchi ...

MARIA-ERPICE: ... e mal pagati! La vicina di casa fa la psicologa in TV ... e guadagna bene! E ogni tanto fa pure le marchette, così arrotonda!!!

ORNELLA: Lo sapevo che si finiva a puttane!

MARIA-ERPICE: Che dici tu, sempre con le frasette in silenzio!!

ORNELLA: Niente!

ERASMO: Segretario!!! Mi faccia il favore, parli!

RAGIUNATT: Beh ... sì. Dunque ... cioè ... vediamo. Insomma, da alcuni mesi questo studio ha pochi pazienti. Anzi ... volevo dire, non solo questo, chè siccome ci lavoro io si potrebbe capire male ... Anche voi non siete messi bene, negli altri studi ... Allora io mi chiedo, perchè?

MARIA-ERPICE: Già! Perchè?

ORNELLA: E diccelo!

MARIA-ERPICE: La fidanzata della Gertrude ha detto che siamo incompetenti! Inadatti a capire i veri problemi!

ERASMO: Per cortesia, ce lo deve dire lui il motivo! Non interrompa sempre, per voglia di protagonismo!

RAGIUNATT: Mah ... io ho fatto delle ipotesi. Si potrebbe pensare che la società sia andata incontro ad un felice rinsavimento ...

MARIA-ERPICE: A guardarti, non può essere vero!

RAGIUNATT: Secondo me, la gente non viene più da noi perchè c'è la crisi. Non sentite: i crac finanziari, il pane costa di più, la quarta settimana ... ? Cioè ... la gente sta male ... ma non si può permettere di andare dall'analista ...

ORNELLA: Certo che se con i pazienti facciamo queste analisi ... si capisce perchè stiamo qui a perdere tempo! Qualche giudizio più profondo??

ERASMO: Qui non si perde tempo! C'è un problema e bisogna cercare di risolverlo! Tutti!

MARIA-ERPICE: Anche perchè alla quarta settimana rischio di non arrivarci io!

PROCTOR: Secondo me sta cambiando il profilo delle patologie mentali. Ne sono convinto! E noi siamo fossilizzati su concetti triti e ritriti!

ORNELLA: Ha parlato il più bravo della classe! Un applauso!

PROCTOR: Guarda che sono serio. Io accedo a tutte le cartelle dei pazienti conservate all'Ordine. Secondo me stiamo prendendo degli abbagli con alcuni pazienti. Ci ostiniamo ad applicare delle categorie superate! Aggiornamento! Questa è la parola magica! Ci dobbiamo aggiornare! Prendiamo per esempio le deviazioni sessuali.

MARIA-ERPICE: In questa stanza??

PROCTOR: La settimana scorsa un paziente mi raccontava di sognare che faceva sesso con un gallina.

MARIA-ERPICE: Arturo!!!

PROCTOR: Lo conosci?

MARIA-ERPICE: Come! E' venuto tre mesi da me. Che stronzo! Ha cambiato analista e non mi ha detto niente!!!

PROCTOR: Ma tu che giudizio avevi formulato? A che punto eri arrivato con lui?

MARIA-ERPICE: Al punto che non mi pagava!

ORNELLA: Si vede che spendeva i soldi con le galline!

MARIA-ERPICE: Stavo arrivando alla conclusione che le sue, diciamo così, fantasie erano legate a tratti di pseudo-fobie da carenza affettiva congenita su cui si innestavano delle carenze fisiologiche di carattere oggettivo. Per la precisione: carenze alimentari.

ORNELLA: Ovvero, che tipo di carenze?

MARIA-ERPICE: Avicole! Comunque detto tra noi era uno sfigato ... ed un coglione! E poi pensava alle galline perchè era ipodotato! Non può essere preso come esempio di ultima frontiera delle devianze psichiche!

PROCTOR: Stiamo sottovalutando il problema!

MARIA-ERPICE: Altrochè! Io, da quando sono a metà stipendio, ho dovuto rinunciare pure allo yogurt ... per la regolarità intestinale!

PROCTOR: Ornella, ti ricordi dell'ipocondriaco con l'asma?

ORNELLA: Quello che, quando mi chiamava, ansimava per telefono?

PROCTOR: Sì, era un paziente complesso, quello. La sua psiche, me lo dicesti tu una volta, mostrava delle striature come una tela impressionista.

ORNELLA: Te l'ho detto prima o dopo l'happy hour?

PROCTOR: Era un paziente veramente interessante! Capite? Ci sono capitati pazienti che avremmo dovuto studiare di più ... potevamo allargare gli orizzonti della scienza della mente!

MARIA-ERPICE: Invece ora stringiamo la cinghia! Ma, così, giusto per curiosità ... quanti pazienti sono rimasti?

RAGIUNATT: Beh ... nell'ultimo mese, hanno marcato visita solo in due ...

ERASMO: Solo???

RAGIUNATT: Non ho i dati a portata di mano, ma forse è così ...

ERASMO: Che significa "forse"? Segretario, QUANTI?

RAGIUNATT: Beh ... cioè, approssimando in eccesso, potrebbero essere uno o due in più ...

MARIA-ERPICE: Siamo nella merda!

ORNELLA: Io ho il mutuo da pagare!

ERASMO: Ho capito! La barca sta affondando.

MARIA-ERPICE: L'ho detto, siamo nella cacca!

PROCTOR: Presidente, qui siamo tutti analisti di valore. Secondo me, la situazione è recuperabile.

ERASMO: Dipende! Segretario, abbiamo arretrati da pagare? L'Ordine ha debiti?

ORNELLA: Sicuramente il debito morale di non buttarci in mezzo alla strada!

MARIA-ERPICE: Allora sì che rimangono solo le marchette! Sai che sedute!?

ORNELLA: Ma perchè la butti sempre in vacca?

MARIA-ERPICE: mi sto preparando al piano B!

ERASMO: Da come vi state comportando, non faccio fatica a pensare che i pazienti se ne siano andati. Segretario, ripeto: abbiamo conti arretrati?

RAGIUNATT: Beh ... cioè ... nella relazione, nelle slides cioè, c'era in fondo una tabella con dei numeri ...

ERASMO: ABBIAMO DEBITI, SI O NO?

RAGIUNATT: Beh ... la faccenda è molto complessa ... cioè ... ci sono diversi aspetti da considerare ... non si può dire su due piedi ...

ERASMO: Ho capito. Non c'è risposta!

RAGIUNATT: Beh ... non è che non c'è risposta ... la risposta c'è ...

ERASMO: Segretario, può tornare a sedersi. La ringrazio. La prossima volta vedremo di evitare gli inconvenienti tecnici.

ORNELLA: Se ci sarà una prossima volta!

ERASMO: Bisogna vedere come è messo l'Ordine finanziariamente. Nell'attesa e sperando che la situazione non sia irrimediabilmente compromessa, forse una soluzione c'è. E significa: cambio di strategia.

MARIA-ERPICE: Certo che non c'è nessuno che parla come mangia!

ERASMO: Bisogna cooperare tutti per la causa comune e per farlo bisogna iniziare a lavorare con spirito nuovo. Bisogna diversificare il portafoglio delle competenze! Ci sono rimasti al massimo quattro pazienti e noi siamo in cinque, senza contare i collaboratori esterni e i membri dell'Ordine non residenti. Dobbiamo fornire ai pazienti un trattamento più completo ... incominciando a farli ruotare tra noi. Una specie di tour della guarigione mentale.

ORNELLA: E così dovrebbe migliorare il trattamento? Cioè ... così migliorano i pazienti?

MARIA-ERPICE: Devo avere ancora le calze a rete dell'ultima orgia. Tornano utili!

ERASMO: Lei, che ha sempre il solito spirito caustico ... qual è la sua specializzazione?

MARIA-ERPICE: Io mi occupo di devianze sub-urbane di carattere conflittuale superiore. La prossima, invece, sarà a carattere inferiore, sia anteriore che posteriore.

ERASMO: Lei, invece?

ORNELLA: Paradigmi della diversità sessuale con innesti di accelerazioni dell'incoscio.

ERASMO: Interessante. Ha mai trovato pazienti classificabili secondo le patologie della sua categoria?

ORNELLA: Tecnicamente, mai! Però una volta ho avuto in cura uno con la rinite allergica.

ERASMO: Lei?

PROCTOR: Io ho un profilo professionale poliedrico, che mi porta a spaziare dalla psicologia cibernetica, ai disturbi della macchine fino alle sofferenze a-specifiche dei celenterati.

ERASMO: Guadagna molto da tutte queste abilità?

PROCTOR: Nella crisi nera anch'io! Con in più un'ex moglie a cui pagare gli alimenti e un'amante: si trattava di una mia paziente, che ha deciso che, non potendo curarsi con sedute settimanali, doveva approfondire le problematiche fisiche, diciamo così, full-time.

ERASMO: Lei, segretario?

RAGIUNATT: Beh ... io ... cioè ... mi sono, come per dire, lasciato ... insomma, sono un generalista, con possibilità evolutive ...

ERASMO: Lasci stare! Ho capito!

MARIA-ERPICE: Allora, come siamo messi? La sfanghiamo?

ERASMO: Io davo ripetizioni di latino, prima di iscrivermi all'Ordine e di diventare presidente.

ORNELLA: Serve anche il latino ai pazienti?

ERASMO: Non serve! Signori, mi dimetto! Lascio la carica! Ognuno per sè!

MARIA-ERPICE: E tutti i discorsetti sulla diversicazione del lavoro?

ERASMO: Ecco, incominciamo con il vederci più tardi a casa sua. Così può sviluppare le nuove abilità di cui parlava ...

(Sipario)

mercoledì 24 settembre 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. IV

Un giorno fui chiamato dal direttore di dipartimento. Ignoravo la ragione della chiamata anche se, oscuramente, era come se me l’aspettassi. Sedetti davanti alla sua scrivania, con un’aria insonnolita anzichè preoccupata come si conveniva, data la situazione; gli impiegati venivano chiamati raramente, ed il fatto che fossi stato convocato proprio io non era sicuramente un buon segno. Il direttore di dipartimento esordì con queste parole: “Caro Cicogna, io e lei, almeno per quanto io possa ricordare, non abbiamo mai avuto il motivo, o meglio, l’occasione per vederci ... e ciò spesso rappresenta una perdita perchè tra gli impiegati ci sono delle persone magnifiche, con le quali è possibile spendere pochi minuti in conversazioni di reciproca utilità ... Però ... il lavoro è il lavoro ... e sia io che lei abbiamo una mansione da svolgere giornalmente, per la quale può essere difficile venire incontro alle questioni, diciamo, più squisitamente personali. Non so se lei intende quello che voglio dire, ma presumo di sì, data la mia confidenza nella sua intelligenza e sensibilità. Nella mia funzione di capo – perdoni l’indelicatezza del termine – una delle mie principali preoccupazioni è ... assicurarmi che gli impiegati, ed in generale tutto il personale di questo dipartimento, si trovino a proprio agio con la struttura e ... l’organizzazione del lavoro. Sicuramente lei mi intende, ma mi faccio un mio dovere di precisarle che spetta a me, come da regolamento, vigilare sulla serenità dei dipendenti ... la serenità come prerequisito per l’armonioso adempimento delle loro mansioni. Questo vale per gli impiegati – quindi per lei – ma anche per me. Veda ... ad essere precisi il regolamento non indica espressamente questo compito, ma esso è così compiutamente definito nel suo corpo di regole che non è possibile non ricavarne, da una minuziosa interpretazione, anche quest’ulteriore prescrizione di buon senso. Una macchina garantisce un funzionamento soddisfacente e sempre rispondente alle sue caratteristiche tecniche se ogni sua parte, anche il più piccolo ingranaggio, viene sempre mantenuta in ordine: solo così l’insieme produrrà un funzionamento efficiente!”

Qui il suo discorso, che da principio aveva assunto un tono eccessivamente confidenziale, si stava facendo minaccioso, quasi a sottolineare il fatto che si stava toccando l’argomento principale del colloquio. Ed io ero sotto esame, non un semplice interlocutore. Poi continuò: “Mi rendo conto che il servizio che la comunità chiede a questo dipartimento possa risultare gravoso. Ma non dobbiamo mai perdere di vista il fine ultimo dei nostri sforzi, che è la sicurezza sanitaria dei cittadini!” e, in questo passaggio, alzò improvvisamente la voce, tanto che io non afferrai se stesse parlando in una specie di trance oppure se fosse arrabbiato nei miei confronti. “E’ questa la considerazione che ci deve guidare nelle nostre azioni quotidiane, sul luogo di lavoro, ed è questa la considerazione che mi deve, e dico deve, indurre a cercare ostinatamente di perseguire, con ogni mezzo – lecito s’intende –, la serena industriosità degli impiegati! Insisto sulla parola serenità, perchè essa è la condizione essenziale per il corretto – e produttivo – svolgimento del lavoro qui dentro.” Sembrava un rimprovero in piena regola. Io lo avevo capito dal susseguirsi dei toni del suo discorso, più che dal senso stesso delle parole con cui mi stava inondando. Anche perchè, dalla finestra alle sue spalle, si aveva una visione privilegiata del balcone con la donna ed io, da qualche minuto, stavo sperando che lei uscisse e trascuravo il discorso del direttore del dipartimento.
“Veda Cicogna, io le sto offrendo il mio umile servizio! Le sto chiedendo di dirmi se c’è qualcosa, qualunque cosa, che la turba in ufficio; se posso usare le mie prerogative per agevolarle il compito, per farla sentire più a suo agio. Non se lo faccia ripetere, si senta piuttosto invitato a chiedermi cosa io posso fare per lei! Perchè se lei è sereno, sarà di conseguenza concentrato sul suo lavoro ...” qui si soffermò un attimo “... e tutti avremo da guadagnarne! Non è necessario che io le sottolinei questo concetto, del tutto scontato!”. Poi si fermò a guardarmi, con gli occhi che mi fissavano al di sopra degli occhiali, baldanzosamente inforcati sopra il suo naso da cavalleria. Stette in quell’atteggiamento per qualche secondo, io pure ero immobile che scrutavo dietro di lui, oltre la finestra, nella speranza dell’affacciarsi della donna. Non uscì. Come un colpo di frusta, mi sentii chiedere: “Vuole aggiungere qualcosa alle mie parole, caro Cicogna?”. Quel ‘caro’, in realtà, concentrava in sè tutti gli insulti del mondo, in tutte le lingue. A quel tono interrogativo, mi riebbi dalla mia contemplazione, ritornai in quella stanza. Risposi: “Scusi?”.

sabato 20 settembre 2008

THE SELF-EFFACING PIANO PLAYER


Questo brano sarebbe, da solo, sufficiente a raccontare la storia e la personalità del pianista jazz che più di tutti ha influenzato il genere. Anzi, forse l'ambito del jazz può risultare anche ristretto per questo musicista che, in maniera tranquilla, ha detto una frase originalissima nel capitolo musicale del piano contemporaneo.
Bill Evans è stato un torrente di musica, un torrente che attraverso un lungo e intricato percorso, trascina le correnti, i vortici nella piana tranquillità del lago. Quegli stessi ondeggiamenti si potevano vedere nei suoi atteggiamenti, nella mancanza di sicurezza,  nella patologica riservatezza che gli rendeva difficili i contatti umani. La musica nasceva dai grovigli della sua mente cristallina, un setaccio attraverso cui era passato lo scibile della musica classica rimescolato in un mood personale, un faticoso punto di approdo. Diceva che non si sentiva dotato di talento, che la sua musica era il risultato, in continua trasformazione, di un'enorme applicazione.
Qui è accompagnato da Larry Bunker alla batteria e Chuck Israel al basso. La canzone, "My Foolish Heart", malinconica, mostra quel sentimento di intimità che si riceve dalle esecuzioni di Evans. E' bellissimo vedere come, tutto ricurvo sulla tastiera, quasi a voler nascondere la testa tra le spalle, disegni una trama semplice, sfiorando leggermente i tasti, con una ricchezza di sfumature tenui, in un effetto di grande suggestione emotiva. Questo brano, ogni volta che lo ascolto, mi dà la sensazione che lui stia suonando solo per me: questa è l'intimacy della musica e dello stile di Bill Evans. E' come se questa musica creasse dal niente la sostanza dei sentimenti fondamentali, l'amore, la malinconia, la delusione, la gioia, il dolore.
Ineguagliabile Bill, ha bruciato la fiamma, cercando di alleviare i tormenti con la droga, ma vestendo sempre gli abiti della modestia e della gentilezza.

In quest'ultimo video del 79, un'anno prima della sua morte, è in compagnia di Marc Johnson al basso e Joe LaBarbera alla batteria: "Midnight Mood"

martedì 16 settembre 2008

EPILOGO. LA DONNA, LA SALVEZZA



DONNA: Perchè mi fissi? Perchè continui a guardarmi così?

ASSASSINO: Il tuo viso! Ti vedo e penso: la morte mi sottrae delle possibilità!

DONNA: Sei un uomo malvagio. Ho ascoltato le parole che dicevi al Re: c'è del vero in esse, ma nessun bene può venire dalla bocca che le pronuncia. Io vedo un uomo senza amore!

ASSASSINO: L'amore: ecco una parola pericolosa come mille mari in tempesta. Vorrei poter rinascere, per compiere esattamente le stesse azioni e dimostrare che gli uomini si ingannano sull'amore. E le donne muoiono d'amore.

DONNA: Cosa intendi?

ASSASSINO: Che quando pensano di averlo conosciuto, si bruciano ancor più rapidamente! Quando non lo conoscono, danno la morte peggio della peste.

DONNA: Io l'ho conosciuto, ma ora morirò perchè il Re così ha deciso: sono colpevole di meretricio. La fame non mi ha salvata, mentre se avessi creduto nell'amore ora non starei qui. L'uomo che mi amava era povero, ma onesto. Io l'ho disprezzato perchè volevo sollevarmi dalla mia condizione che era bassa, e così mi sono perduta. Non sopportavo i tormenti e le sofferenze della miseria, desideravo quello che non è permesso alle donne della mia condizione: essere felici. Se il marito è povero, la felicità è un lusso non consentito alla donna e le sue stagioni saranno rigide come l'inverno.

ASSASSINO: Ecco, perchè penso che questi ceppi che mi bloccano gli arti, mi sottraggono delle possibilità! L'arte dell'uccisione è compassionevole con gli infelici.

DONNA: Non è dalle tue mani che può giungere la salvezza ad alleviare le mie pene. Tutt'al più risparmieresti la fatica al boia.

ASSASSINO: Qui ti sbagli! Il boia ti darà la Morte perchè gli è stato comandato, io ti darei la Morte, perchè il mio istinto ti ha scelta, ti darei tutto senza chiederti nulla in cambio, perchè questo dite voialtri fanatici dell'amore: è un dare senza nulla chiedere in cambio.

DONNA: Tu non sai nulla dell'amore. Se anche avessi abbracciato tutte le tue vittime, prima di ucciderle, per ascoltare i battiti del loro cuore, questo non avrebbe fatto di te un uomo salvo, se non avessi avuto una persona da amare!

ASSASSINO: Eppure io mi innamoro così facilmente! Ogni volta che ho ucciso è perchè amavo la mia vittima.

DONNA: Che cosa turpe, allora! Perchè hai amato allo stesso modo uomini, donne, vecchi e bambini!

ASSASSINO: Ho amato quanto di più bello spirava nei loro corpi: la Vita! Quando si ama qualcosa, la si desidera, la si vuole, ci si vuole impadronire di quella cosa, non c'è amore senza possesso, non c'è amore se la persona amata non sta accanto a te. Quell'affezione verso un essere lontano, che si chiama amore, è solo una mancanza di amore, è solo un rinunciare colpevolmente alle proprie possibilità, ed anzi un inganno perpetrato sui propri sensi e sull'anima. Una prigione accettata consapevolmente. Uno scandalo! Io ti vedo davanti a me, fragile, bisognosa di protezione, bella per tutto questo dolore, e non riesco a fare l'unica azione che vorrei: prendermi la tua vita, per custodirla dentro di me, come in un forziere, renderti felice, finalmente sollevata dalla tua condizione. Ecco l'ingiustizia che si compie a danno tuo e mio. Non hai più niente da perdere ed io potrei darti quella sicurezza che non hai mai avuto.

DONNA: Se anche mi uccidi, saresti solo l'ultima di tutte le disgrazie che mi sono capitate!

ASSASSINO: No, sarei invece la prima delle tue fortune: sarei la tua salvezza! Cambierei il tuo destino, che non ti è mai veramente appartenuto e che il re ha deciso di spezzare come un ramoscello secco. Solo apparentemente ti darei la morte, mentre invece ti darei la vita in un estremo gesto di Libertà. Amare non significa forse cambiare la vita della persona amata? Mi accusi di non conoscere l'amore, io penso che se mi guardo attorno, vedo che forse nessuno lo ha conosciuto davvero!

DONNA: Amare significa anche temere per le sofferenza che patisce la persona amata!

ASSASSINO: E infatti io temo per quello che ti sarà fatto, ed anzi soffrirò terribilmente quando il boia si accanirà con le mani sul tuo collo per spezzarlo.

DONNA: Tu non hai mai saputo cosa significhi soffrire per la persona amata! Siamo rinchiusi in questa cella come due bestie, non può nascere niente di buono in questo abisso.

ASSASSINO: Se solo potessi, io fisserei il tuo volto in un'espressione di eterna felicità, come argilla ne cambierei la forma in un sorriso immobile, per rendere giustizia ai torti che hai subito. Il torto più grave sarà che tu morirai con gli occhi carichi di paura e dolore, perchè la tua vita ti sarà stata rubata, tra atroci tormenti. Se tu mi aiuti, io posso mettere fine a tutto questo ... ed entrambi conosceremo la salvezza.

DONNA: Cosa dovrei fare?

ASSASSINO: Contro le catene ed i ceppi non puoi nulla, ma puoi avvicinarti a me.

DONNA: Io ... ho paura di te!

ASSASSINO: Di cosa hai veramente paura? Prova a pensare a cosa ti attende. Prova a pensare al morso della corda sulla pelle liscia del tuo corpo, quella pelle che ha conosciuto finora solo l'altra pelle delle carezze nel buio dell'alcova. E mentre la corda si stringerà ed i piedi saranno tirati in basso dalle ruvide mani sacrileghe del boia, tu non sentirai più nemmeno il dolore, ma la costrizione del tuo fiato che s'attenua e il gonfiore degli occhi che vorrebbero uscire dalle orbite, mentre la luce della vista ti abbandona. Ti spegnerai come una candela. Peccato perchè c'è ancora cera da ardere. E quando non ci sarai più, il tuo volto gonfio e opaco sarà fermo sull'ultima deforme espressione di orrore. E la gente accorsa a guardare, accoglierà la fine dell'esecuzione con un gesto di approvazione e sollievo.

DONNA: Liberami se puoi da tutto questo. Forse anche per te ci può essere salvezza.

ASSASSINO: Con un gesto d'amore, appunto. Ma di amore vero, non una pallida imitazione. L' amore vero vuole la Vita.

DONNA: E sia! Ma sappi che se acconsento a seguirti nel tuo folle consiglio è perchè io ho già perso da un pezzo la mia libertà e qualunque cosa mi succeda ora, non cambierà la mia storia. La salvezza forse verrà, forse no: il tempo per me si era già fermato quando ho cessato di essere bambina. Da allora non ho più deciso io per me. Farò come dici, dunque. E che Dio mi perdoni!

ASSASSINO: Dio non c'entra nulla in tutto questo, altrimenti ti avrebbe evitato ogni infelicità. Lui ti ha condannata, io invece ti sto offrendo la salvezza.

DONNA: E sia! Prendi gli avanzi del poco cibo ancora rimasto sulla tavola. Ma è un pasto veramente misero.

ASSASSINO: Ti ho scelta io! Lascia a me di giudicare cosa prendo.

(L'uomo fa uno sforzo per chinarsi sulla donna che si è riversata supina accanto a lui. Gli occhi di lei sono fissi in alto in un'espressione incolore. Egli si avvicina al suo collo, lo bacia teneramente e poi, come continuando il gesto appassionato del bacio, lo squarcia con un morso violento: il sangue esce a fiotti e sgorga dal collo sulla bocca dell'uomo che rimane voluttuosamente attaccato con i denti a quel collo violato. La donna giace in un'espressione del viso finalmente distesa. Sipario).

giovedì 11 settembre 2008

DIALOGO TRA UN RE, UN ASSASSINO E LA MORTE


RE: Infine, alzati in piedi e vieni avanti, uomo, per ricevere il giusto giudizio!

ASSASSINO: Re, non ho ancora capito di cosa mi si accusa.

RE: Ti prendi gioco di questo santo tribunale, miserabile, e del tuo Re?

ASSASSINO: Re, ho detto che non capivo di cosa mi si accusa. Sono sincero.

RE: Imputato, io sono il tuo Re. Dunque sono la persona più giusta per giudicarti.

ASSASSINO: Sono d'accordo con te, re ... che sei il mio re!

RE: Osi forse mettere in dubbio la mia prerogativa di giustizia?

ASSASSINO: Non penso questo. Solo, non credo che la giustizia alberghi in te!

RE: Quello che dici si aggiunge alla tua colpa, che è già grande!

ASSASSINO: Attendo, dunque, di conoscerla, questa colpa.

RE: Eccoti servito. Sei colpevole di aver commesso molti ed ingiustificati omicidi di sventurati esseri innocenti, che hanno incrociato il tuo cammino. Tu hai ucciso per pazzia ... per la tua pazzia!

ASSASSINO: Ecco, se posso permettermi di contraddirti ... essi non mi hanno incrociato: sono io che li ho scelti.

RE: Vuoi dire che c'era un disegno nei tuoi misfatti?

ASSASSINO: No, nessun disegno, re. Di volta in volta, ho deciso io chi uccidere.

RE: Come hai deciso?

ASSASSINO: Re, la mia memoria non è più salda come in gioventù, non pochi sono stati da me beneficiati: rischiamo di fare aspettare oltre misura il boia tuo fratello.

RE: Nella mia magnanimità evito di giudicarti per quest'ultima offesa. La morte che si aggiunge alla morte dà come somma sempre la morte.

ASSASSINO: Ma re, io volevo dire che anche tu ne hai fatti fuori tanti, sicuramente molti di più di me, che modestamente ti seguo, ma molto da lontano.

RE: Io dò la morte, perchè questo è nelle mie funzioni!

ASSASSINO: Certo! E' nelle tue funzioni l'affamare i tuoi sudditi con una moltitudine di tasse. Mandare in guerra i primogeniti, e spesso non solo quelli – beh ... ultimamente non sei stato troppo fortunato nelle tue campagne! Arrostire vivi gli eretici ... ed anche qualche ex ministro. Condannare alla morte per fame un paio di mogli e sterminare ben bene le loro famiglie. Così, giusto per non avere il fastidio di parenti assetati di vendetta, che tramano contro il re. Forse è colpa della fortuna che non arride alle tue alte intenzioni, ma durante tutti questi anni di regno il tuo popolo non se l'è cavata molto bene.

RE: Per quello che dici, potrei farti cavare la lingua, bruciare gli occhi e i capelli, strappare le braccia e le gambe da due cocchi di cavalli. Ma sarò clemente almeno in questo: lascerò che una sola morte ti venga data, anche se ne meriteresti mille, per quello che hai fatto.

ASSASSINO: Re, se mi facessi fare tutto quello che hai detto, non saresti diverso da me. E allora anche tu ti dovresti fare giudicare da un re più grande e potente di te. Del resto non nascondo che alcune delle cose che mi faresti fare, io le ho fatte veramente.

RE: Di cosa ti vanti, miserabile! Neghi tu di aver sterminato una famiglia, dopo avere ricevuto rifugio in una notte tempestosa?

ASSASSINO: No, re, non nego. Però li ho uccisi mentre dormivano!

RE: Neghi tu di aver prima violentato una monaca e poi di averle strappato il fegato?

ASSASSINO: Quella donna mi offendeva, mentre la prendevo continuava a guardare verso l'alto ed a vociare le sue lagne. Ecco: non aveva fegato! Qualunque cosa le abbia strappato, dopo averla aperta in due, non era il fegato.

RE: Neghi, tu, mostro, di aver azzoppato un vecchio contadino e di averlo abbandonato nei campi, lasciandolo prima morire di fame e poi in pasto ai corvi?

ASSASSINO: Non sapevo che i corvi l'avessero mangiato! Beh, re, non starai ad elencarmi tutte le cose che ho fatto? Ti ripeto che non è carino fare aspettare il boia tuo fratello.

RE: Perchè hai ucciso?

ASSASSINO: Potrei farti la stessa domanda. Io, per parte mia, rispondo: il Caso guidava le mie scelte. Quella gente comunque sarebbe morta ed io mettevo in pratica l'eccelsa arte dell'uccidere.

RE: Tu sei pazzo!

ASSASSINO: Re io uccidevo perchè mi piaceva uccidere, ma ne ho fatti fuori molti di meno di te. Se nel tuo regno ce ne fossero cento di artisti dell'uccisione come me, il tuo sarebbe un regno felice e pacificato. Qualche ammazzamento violento bisogna pure metterlo in conto!

RE: Non ti rendi conto della tua empietà! Noi uccidiamo per punire la colpevolezza dei malvagi.

ASSASSINO: Re, se togli tutto il grano al tuo popolo, esso non sopravviverà, sarà condannato a morte!

RE: La legge stabilisce cosa mi è dovuto!

ASSASSINO: La legge è fatta da te! Se muovi le tue armate contro gli altri re che ti circondano, di quali colpe li punisci? Forse del fatto che non ti hanno ceduto spontaneamente le loro corone?

RE: Essi hanno minacciato alla nostra sovranità ... ed alla sicurezza del nostro popolo!

ASSASSINO: E' un popolo ben misero il tuo, se è perseguitato all'esterno dagli eserciti dei tuoi nemici ed all'interno dalle truppe di polizia.

RE: Il mio popolo ha i suoi rappresentanti nel parlamento, liberamente eletti!

ASSASSINO: Il tuo popolo ha avuto la libertà di eleggere sempre gli stessi rappresentanti per tutti i trent'anni del tuo regno. Questi rappresentanti erano o soldati, o stallieri, o preti, o famigli del tuo castello. Per essere rappresentanti del popolo, erano sempre d'accordo con le tue decisioni.

RE: La tua perfidia ti fa parlare!

ASSASSINO: Re, non dico niente di nuovo! Beh ... alcuni di questi rappresentanti li ho tagliuzzati ben bene.

RE: Ancora ti domando: perchè hai tu ucciso?

ASSASSINO: Re, hai mai sentito parlare del Caso? E' il volto più vero della Morte. Se non conosci il Caso è comprensibile, dato che tu sei un grande pianificatore.

RE: La provvidenza divina guida le mie azioni, io eseguo la volontà di Colui che veglia su di me e sul mio popolo!

ASSASSINO: Eppure io pensavo che tu fossi un uomo libero!

RE: Il mio destino è legato alle mie responsabilità, la mia libertà alla volontà di seguire il Bene.

ASSASSINO: Re, se vuoi dire che io sto dalla parte del male, allora, anche se non ho ben compreso il senso di tutte le tue parole, forse hai ragione. Perchè se stessi dalla tua parte, quella del bene, come la chiami, ora non mi manderesti a morte. Io, che pure non ho la tua investitura e ti sono inferiore, ho sempre fatto come più mi piaceva, uccidevo perchè così volevo, ed uccidevo chi sceglievo. Dunque io mi ritengo un uomo libero. Tu, che dici di essere assoggettato alle tue responsabilità, hai fatto le leggi, ma solo per gli altri, perchè il tuo stato ti poneva al di sopra di quelle. Tu hai agito come volevi. Pertanto anche tu sei un uomo libero. Allora sono tentato di pensare che la differenza fra noi è molto sottile: entrambi siamo liberi, perchè entrambi decidiamo di dare la morte, e, così facendo, obbediamo al richiamo della nostra vera natura. Ancora una volta dico che non capisco di cosa mi si accusa. Forse di obbedire alle Leggi Naturali?

RE: La mia alta virtù mi spinge a continuare a sopportare il tuo sopruso, con lo scopo di persuaderti che devi morire, perchè la tua efferatezza ti ha guadagnato questa fine. Io non sono come te: io devo mantenere l'ordine ed assicurare il progresso al mio regno.

ASSASSINO: Mantenere l'ordine significa fare in modo che i tuoi sudditi si comportino come tu desideri.

RE: L'ordine è scritto nella legge divina.

ASSASSINO: Vuoi dire che tu riesci a sentirla perchè stai più in alto, mentre i tuoi sudditi, che stanno in basso, hanno bisogno di farsela ripetere da te? Dunque è un fatto di altezza? Quindi se essi riuscissero a raggiungere la tua condizione, tu non saresti più necessario? Questo vuoi dire?

RE: Io sono quello che sono per emanazione divina!

ASSASSINO: Re, tu sei quello che sei, perchè i tuoi antenati erano più bravi dei loro nemici a maneggiare la spada, e i tuoi avi erano già abbastanza ricchi da assoldare eserciti di mercenari.

RE: Se io non ci fossi, queste terre sprofonderebbero nell'orribile disordine!

ASSASSINO: Ma non ci sarebbe la divina provvidenza ad assicurare che tutte le cose vadano per il meglio?

RE: La Divina Provvidenza ha bisogno dei Re! Senza il Re si ha il dominio del caos.

ASSASSINO: Chiamalo pure Caso! Qui entro in gioco io.

RE: Tu sei un miserabile che uccide senza nessuno scopo: per questo meriti la giusta condanna a morte!

ASSASSINO: Re, qui ti sbagli: io ho sempre ucciso per il mio scopo, che era poi il mio piacere. Quel piacere che non provavo quando ero un soldato, tanta è la facilità di morte nelle battaglie. L'arte dell'uccisione non dimora tra gli eserciti: essa è il cambiare il corso delle vite che si scelgono, senza procurare inutili tormenti.

RE: Vorresti forse essere elogiato per gli sgozzamenti di cui ti sei macchiato?

ASSASSINO: Re, lascia che ti spieghi questo: quando io sceglievo chi uccidere, poi uccidevo rapidamente, senza inutili ed atroci tormenti.

RE: E le carni strappate? E gli arti tagliati? E i corpi aperti e svuotati?

ASSASSINO: Beh ... re, stai elencando le pratiche più piacevoli della mia arte.

RE: Il tuo disprezzo della vita è rivoltante! Mi fai orrore e ribrezzo!

ASSASSINO: Re, se si considerano le mie azioni con animo sgombro da pregiudizio, io mi sono comportato come un incidente di natura. Gli uomini, anche nel più felice dei regni, continuerebbero a morire per le malattie, per le più impensate casualità, una caduta da cavallo, un sasso precipitato dal cielo, un fulmine che incenerisce l'abero sotto il quale ci si ripara, una forte commozione, qualunque causa porti le loro fragili esistenze ad essere interrotte nei tempi e nei modi più diversi. E' la legge del Caso e tu potresti ancora chiamarla la legge di Dio, usando il linguaggio che ti è più proprio. Ma due re che si combattono in una guerra interminabile, per espandere di pochi acri i loro regni, che spingono i loro soldati in ammassi sanguinolenti, loro sì vanno contro le leggi della Natura, perchè sanno che i loro uomini moriranno e non li fermano, non cessano le guerre. La Natura lascia che poche vite cessino, perchè tutta la Vita continui.

RE: I tuoi pensieri sono perversi, come le tue azioni: la morte è un esito inevitabile per te.

ASSASSINO: Re, la morte è un esito inevitabile con te. Lo dico, perchè sto per morire e non sarò il solo, nè lo sono stato.

RE: Noi facciamo la guerra per difendere l'onore Nostro, che è poi anche quello del nostro popolo.

ASSASSINO: Sono sicuro che il re tuo nemico dice le stesse parole ai suoi.

RE: Ma la ragione è di uno solo, ed il torto sta da una sola parte.

ASSASSINO: La ragione risiede là dove la forza eccede. L'esser sconfitti è il più grave dei torti.

RE: Dio concede la forza e la vittoria, perchè Lui solo conosce dove alberga la ragione.

ASSASSINO: E gli uomini si aiutano, cioè i re si aiutano, accumulando ricchezze con le tasse per ingrossare le fila dei loro eserciti. E quando le tasse che ci sono non bastano, se ne creano di nuove. La vittoria finalmente arride al re il cui popolo sarà stato più in grado di sopportare i morsi della fame. Ma un popolo lasciato all'inedia è come un malato che sta soccombendo alla morte.

RE: Che tu sia maledetto! Che la tua anima dannata sprofondi nel buio della notte!

ASSASSINO: Re, io sono maledetto perchè tu mi stai maledicendo. Il tuo popolo ha altro a cui pensare. Quanto al buio della notte, io so solo che ho vissuto da uomo libero, ho agito secondo il mio piacere e questo è il massimo per un uomo. Ed anche la mia morte sarà un incidente del Caso, perchè se i tuoi sbirri non mi avessero agguantato, avrei continuato a vivere ed invecchiare indisturbato, come è successo in tutti questi anni. E siccome sono libero, ti voglio dire questo: tu agisci costretto dal tuo ruolo e procuri sofferenza ai tuoi sudditi ed ai tuoi nemici. Questo ti fa meno libero di me, perchè io seguo il Caso, che comunque non conosco prima, tu segui la tua tradizione, il tuo retaggio. Sei come una belva in gabbia, ma nella gabbia ci sono anche i tuoi sudditi che tu stermini giorno dopo giorno. Forse alla tua morte, che sarà sicuramente più solenne della mia, essi non ti malediranno, ma, credimi, nessuno piangerà con lacrime sincere sulla tua tomba. E alla fine il buio della tomba ricoprirà anche te. Ed anche in questo siamo uguali. Ora vado a trovare il boia tuo fratello.



(L'uomo viene condotto via.

Il re rimane sul trono, pensoso.



Il re rimase sul trono, pensoso



Sipario)