martedì 29 luglio 2008

IL BACIO


La palla stava per arrivare. Io dovevo solamente colpirla con precisione più che con forza, magari anticipando il momento della battuta, per farla schizzare via con più violenza. In quel momento sembrava che avessi addosso gli occhi di tutto il vicinato: era una mia sensazione, però diversi osservatori erano effettivamente intenti a guardarmi.
Mi sentivo bene, mi sentivo così bene che avrei voluto fermare la scena, come in un'istantanea, o tutt'al più rallentarla come in una specie di improbabile slow-motion.
La palla arrivò nel punto in cui io sapevo che sarebbe arrivata, e la scena si svolse esattamente come io l'avevo diretta nel film che si era svolto nella mia mente. Dopo l'impatto rimasi immobile come guardando la traiettoria che si disegnava nell'aria; però i miei occhi erano fissi su un punto che stava fuori dall'inquadratura, un punto che forse esisteva solo nel prolungamento dell'immagine prodotto dalla mia mente.
Quanto stava accadendo mi procurava un'ebbrezza che odorava di vittoria: era come se gli oggetti e le persone, al di fuori di me, si sistemassero in modo da dare il massimo risalto alla mia presenza, ed era come se io fossi di statura molto più grande di tutto ciò che mi circondava.
Una mano accarezzò la mia spalla.
La donna poliziotto, che avevo totalmente rimosso dalla mia attenzione, mi girò bruscamente verso di sé. In un primo momento sembrava che reclamasse il rispetto che la sua autorità avrebbe dovuto imporre. Ma non era così. I suoi occhi mi fissarono, pieni di luce incerta, per un lunghissimo istante, in quello scorcio di fine pomeriggio, un pomeriggio che si spegneva in quel cortile sepolto di Nuova York.
Ella mi guardò, ma, mentre mi guardava, mi amava, mi amava come se avesse voluto perdere traccia di sé nell'alone che mi circondava. Si avvicinò a me, così tanto che ormai respiravo l'aria che usciva dalla sua bocca e che aveva un odore ed un sapore di strade cattive, piene di desolazione, ma anche di voglia di riscatto. Si avvicinò ancora e le mie labbra e la mia lingua assaggiarono la sua carne e la sua saliva, calde, come caldo e in sussulto era il suo corpo che ora era avvinghiato al mio.
Non eravamo più in quel cortile, eravamo in un buio di presenze estranee che facevano a meno di interessarsi del lavorio delle nostre bocche e dello sfrigolio dei nostri corpi impacciati dai vestiti. La forza delle bocche, nel contatto, era tale che sembravano volersi appropriare l'una dell'altra, sembravano voler essere l'altra, e, mentre si suggevano, stille di umore dolciastro passavano dall'una all'altra, e non c'era quasi spazio per respirare. E più mancava l'aria, più si cercava di soffocare in quella stretta tumultuosa e in continuo crescendo. Il tutto sembrava un blocco informe, come un ensemble di due statue che retrocedono, degradandosi, alla nuda realtà del monoblocco pietroso dal quale sono state generate.
Calò il buio e le ombre coprirono tutto, cancellando ogni segno di vita.

Onofrio Lazzizzera (Dicembre 2007)