domenica 12 ottobre 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. V

(L'immagine sopra rappresenta un quadro di Federica Mazzeo ed è pubblicata su questo blog dietro sua gentile concessione)

Mi chiamo Vladimiro Cicogna ed è sera. Sto pedalando. Forse inseguo una donna che può darmi delle risposte, ma ho dimenticato le domande. E’ sera, in modo impressionante qui a Copenaghen, in questo inizio di settembre che non dimenticherò, l’aria tersa e fresca, come una ruvida mano che carezza la pelle scoperta. Mentre le ruote della bicicletta scorrono sull’acciottolato del Nyhavn, gli occhi luccicano di piacere alle luci sfocate del molo. Il viaggiatore, che capitasse da queste parti ora, potrebbe non aver voglia di andarsene più. Intanto la donna è lì, sempre alla stessa distanza, che pedala, ignara dell’inseguimento ed io ho la sensazione che una forza volatile mi spinga in maniera impalpabile, tanto le mie gambe si muovono leggere. E’ ancora la città che mi aiuta a vivere la notte a modo suo, perchè ci sono delle leggi che io, straniero – non lo dimentico – sono tenuto a rispettare.
Penso all’ultima sigaretta, fumata in treno, alcuni mesi fa, mentre partivo da tutto ciò che ero stato in precedenza. Era la mia città che abbandonavo, e in quel momento mi imposi di sperimentare la malinconia dell’abbandono, un sentimento molto teatrale. Percepivo la solennità del momento, ma soprattutto, nella parte più vera di me, morivo, chiudevo un’esistenza come il cerino che avevo appena buttato. Tiravo ampie boccate. Non sapevo cosa avrei fatto nei giorni seguenti, però le catene, il sordido lavoro, il sordido ufficio, il direttore del dipartimento, con i suoi rimbrotti sempre più frequenti – e, da ultimo, anche la minaccia di una lettera disciplinare –, i faldoni, la donna dell’edificio di fronte, unica piacevole consolazione delle mie giornate ugualissime, e spesso anche dei miei pensieri notturni, tutto questo stava scivolando indietro. Irrimediabilmente. Non lo sapevo, ma lo sentivo e lo volevo. Perchè lì non ci sarei più ritornato. Addio Roma, adieu!
Mentre mi avvicino al castello di Rosenborg, una sferzata di vento gelido mi riporta sulla terra. La donna attraversa il parco ed io rallento perchè la vita tutt’intorno si è molto attenuata, non c’è più nessuno, i rumori vanno dosati altrimenti lei mi sente e si accorge di questo gioco. Tuttavia anche in lontananza la tengo d’occhio, non può sfuggirmi.
Ad un tratto si ferma, lascia la bicicletta ed incomincia a scendere le scale di quello che sembra un gabinetto pubblico, o un passaggio sotterraneo. Mi affretto anch’io e subito sono al buio, quello vero, senza scampo. Riscopro le vecchie fobie, mentre procedo a tentoni in quello che sembra un lungo e fumoso corridoio. Sento gocciolare da alcuni punti del soffitto. Non dovrei essere qui sotto, non era questo il finale d’atto che mi immaginavo, mentre lentamente seguo il tramestio dei passi in lontananza. Non saprei nemmeno dire se sono i passi della donna, oppure di qualche creatura sotterranea che in qualsiasi momento potrebbe sentirsi autorizzata a sbudellarmi. Per un istante rimpiango la polvere dei faldoni. Mi convingo che se raggiungo la donna, poi sarei al sicuro, anche se il trovarci lì sotto entrambi mi obbligherebbe quanto meno ad inventarmi una scusa plausibile.
Ad un certo punto giungo ad una svolta del tunnel. Ma cos’è questo? Possibile che in Danimarca qualcuno si sia ingegnato a costruire una viabilità sotterranea? Ho perso la nozione dello spazio, mentre vado brancolando, mi sembra di trovarmi davvero in una città sotto terra. Il lavorio del mio cervello si fa sempre più doloroso, i ragionamenti seguono l’esito tortuoso dei passi. Credo di cambiare, obbligato, più volte direzione ed è come se stessi macinando chilometri là sotto, attraverso piazze, incroci, portici, in una ragnatela di passi guidati dalla parvenza di uno scalpiccio sempre più flebile.
Poi, all’improvviso, un secco dolore mi scaraventa al suolo. Una mazzata, qualcuno mi ha colpito alla testa con un pugno. Rimango giù, disteso supino, e questo mi serve per recuperare un pò di lucidità. Chiunque mi abbia colpito, in qualunque momento può finirmi, farmi male sul serio. E pensare che nel pomeriggio ero entrato nella Marmorkirken per aumentare il senso di pace che ultimamente stavo vivendo in città.
Visto che sono ancora vivo e cosciente, mi rialzo e decido di proseguire: la testa mi duole ancora, ma, nel dolore, penso che il peggio è passato. Solo che camminare è diventato maledettamente difficile, sento le gambe come due cariatidi, mi ci vorrebbe la convinzione di un elefante per trascinarle. Raccolgo tutte le dosi sparse della mia, di convinzione, quella che mi permetteva nei momenti di trionfo di sbrigare le pratiche nel minor tempo possibile, e la concentro in pochi passi decisi. Forse riesco a farcela. No! Un colpo ancora più violento del primo mi atterra nuovamente. Fine di tutto. Almeno per ora.

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