mercoledì 1 febbraio 2012

DIALOGO MINORE


IO: Vorrei trovare una storia da raccontare ...

VECCHIO: Cercala ... ma nel posto giusto! Ci conosciamo da alcune settimane ormai, ma vedo e sento che tu sprechi il tuo tempo. So di essere diretto, anche se non c'è alcun legame tra noi: non sono un tuo parente, nemmeno un amico. Ma mi urta vederti girare attorno al nulla!

IO: E' facile per te parlare e giudicare! Tu hai tutto il tempo che ti serve: puoi fermarti per ricordare, puoi stare lì a ciondolare rigirando gli odori della cucina nel tuo naso, accarezzare la pipa, stare per interi minuti ad assaporare il sapore del tabacco sulla lingua. Io ... io non mi posso permettere tutto questo. E mi sento come una piccola ruota in una macchina che è sempre in moto. La mia testa è piena di piccoli dolori che si spostano continuamente da un capo all'altro. Io amo scrivere, ma mi sento sempre come se avessi un mattone sul capo, un mattone pesante che mi opprime. In passato avevo delle fulminanti e felici ispirazioni che mi guidavano. E raccontavo di personaggi strani, strani ma interessanti, curiosi; raccontavo storie avvincenti su di loro. Era come se non sapessi mettere che colori surreali sulla tavolozza, non adatti a rappresentare le immagini. Quello che veniva fuori dall'insieme, però, il più delle volte era un'immagine forte, che andava diritta all'osservatore, a volte persino felicemente commovente.

VECCHIO: Tuttavia anche ora stai rinunciando. Ti piace considerarti uno scrittore, i racconti dovrebbero essere il tuo cibo d'elezione, ma è come se stessi evitando di nutrirti. Forse sei solo un presuntuoso, che pensa di essere bravo a scrivere.

IO: Dovrei sentirmi ferito dalle tue parole, ma preferisco ignorarle. Potresti darmi dei consigli invece, ma forse non ti interessa aiutarmi.

VECCHIO: Hai detto che io ho tutto il tempo che mi serve, che io possiedo il tempo. Sbagli. Proprio perchè sento che non mi resta tanto tempo, cerco di scegliere quali azioni compiere, quali colori osservare, quali suoni rimanere ad ascoltare. Scelgo soprattutto le persone con cui parlare, come in questo momento in cui sto qui davanti a te.

IO: Ma allora perchè non mi aiuti ?

VECCHIO: Perchè non vedo una persona bisognosa di aiuto! Ti dirò: se vuoi raccontare una storia, devi essere capace di cercarla dentro di te. Non ti mancano le immagini. Viviamo tutti immersi in un oceano di immagini e, passivamente, ci lasciamo attraversare da milioni di oggetti in movimento. I nostri sensi sono abusati, completamente immersi in quella distesa di oggetti. Le storie che vorremmo raccontare sono già dentro di noi, tutti i suoni, le luci, gli odori, i volti, le strade, le foreste e tutto il resto sono depositati da qualche parte nel nostro cervello. Siamo come un pianoforte, che produce suoni ineffabili quanto più a lungo è stato esposto in una sala alle onde di un concerto ed ai battimani del pubblico. E allora cerca! Cerca dentro te! Ecco, ti aiuto: potresti incominciare dall'immagine di un uomo solo all'interno di un teatro, un uomo sul palcoscenico e con le spalle rivolte al pubblico. Suona la tromba. Fin qui niente di strano, solo che il teatro è completamente vuoto. Non c'è nessuno a parte lui. E suona: dallo strumento escono note piene di lirica bellezza, ma, peccato!, non c'è nessuno. Ecco: prova ad andare avanti.

IO: Mi sembra un'immagine stereotipata.

VECCHIO: E' solo un possibile incipit ...

IO: Però io non inquadro il palcoscenico. I miei occhi si sono spostati dietro le quinte, lungo un corridoio stretto e buio. Tutti i camerini degli artisti danno su quel corridoio, anche quello del nostro musicista. La porta è semiaperta, dall'interno filtra nel corridoio un filo di luce debole, malcerta. La porta potrebbe aprirsi, e in effetti si apre - non interessa il perchè. L'interno è squallido, sicuramente non diverso dagli altri camerini, in fondo si tratta di un teatro minore, lì si tengono solo spettacoli di serie B, per un pubblico svogliato. Comunque la luce ... la luce, dicevo, è cattiva perchè viene da una lampadina cattiva, sopra lo specchio. C'è un particolare inquietante: sul ripiano davanti allo specchio c'è un piattino, un cucchiaino ripiegato, una siringa con l'ago sporco di sangue. Almeno credo che siano sangue le gocce di liquido rappreso nel piattino.

VECCHIO: C'è uno spettro accanto a quel piattino, o forse sul palcoscenico, che suona.

IO: Non so dire se si tratta dello stesso spettro, ma sicuramente in quel camerino c'è stata qualcuno oppresso: un senso di solitudine meschina nascosta in un sordido camerino. Accanto al piattino c'è una foto molto consumata, quasi lacera, con il bordo strappato in alcuni punti. Nella foto una bambina con un grembiulino rosa e una tromba in mano.

VECCHIO: Forse l'uomo fuori sta suonando quella tromba.

IO: Così sembrerebbe. Ma forse questo dettaglio non è importante, ora. Mi sforzo di avanzare con lo sguardo all'interno del camerino, ma riesco a malapena a vedere le mie mani, vicino al viso. Forse ho paura, sicuramente sto tremando. Potrebbe essere freddo.

VECCHIO: Mancano ancora tanti elementi. Sappiamo molto poco di quell'uomo. Per quanto ne so, potrebbe essere solo l'immagine in un quadro. E il suono viene fuori forse da un giradischi.

IO: Non so, in questo momento sono lontano dal palcoscenico. Invece ritorniamo nel camerino buio. Mi muovo a fatica (io non sono lì dentro, ma è come se ci fossi, sono il lettore-osservatore, che è dappertutto e tutto può) quando ad un certo punto urto contro un oggetto di legno: mi sforzo di guardare bene, lo tocco. E' un cavallo a dondolo. Chissà se quella bambina ci ha giocato. Poi agito le mani, come a rovistare. Ma non riesco a restare ancora a lungo, c'è un acre odore di canfora che mi spinge fuori. Proprio non si riesce a resistere.

VECCHIO: Sembra però che tu ora stia cincischiando con particolari di nessuna utilità per la storia che vorresti raccontare. In realtà tutto è utile, ma devi trovare il modo di costruire un percorso che lega con un filo invisibile gli oggetti che trovi. Altrimenti l'esercizio è inutile.

IO: Non so. Forse hai ragione, ma per come la intendo io spenderei fiumi di parole per arrivare a descrivere nella scena madre il vero movente di tutto: e per me il movente è l'amore ... o la mancanza di amore, il che è lo stesso! Arriverei dopo diversi capitoli a rivelare che il trombettista ha amato la bambina, che forse bambina non è più. In fondo la foto era molto sgualcita e vecchia e può darsi che nel tempo presente la bambina si sia trasformata in una donna smaliziata. Comunque mi piace pensare all'amore, è l'unico motivo per il quale è concesso di rovinarsi la vita, di maledirsi suonando un blues amaro, ma come lo suonerebbe un trombettista jazz, con quell'impronta di malinconica e sdolcinata perdizione nella trama del suono. E non è detto che quella ragazza non lo abbia amato a sua volta. Può darsi di si, tutto può essere successo. Forse ci sono stati momenti nella vita dell'uomo in cui non è stato necessario infilarsi un ago nelle vene e poi soffiare la propria solitudine nel bocchino di una tromba. Ecco io ci vedo l'amore in questo racconto e cercherei di dare questo tipo di coloritura alle situazioni.

VECCHIO: Se la pensi in questo modo, vuol dire che stai mettendo in questo esercizio l'ispirazione che ti è più congeniale, forse non c'è stato amore a sufficienza nella tua vita. O forse non ce n'è stato affatto. Ho la sensazione che tu stia spostando questo racconto su un piano - inclinato - personale. E non è detto che questo sia sempre un bene, per lo meno per le sorti della storia.

IO: Non saprei. Ma sono d'accordo con te sull'amore: non ce n'è mai abbastanza o forse non ce n'è stato abbastanza, almeno fino al punto che si desidererebbe. Non so quanto c'entra quello che sto per dire, ma mi piace dirlo. Siccome sembra che la stia mettendo sul personale, è come se io e l'amore non fossimo in grado di riconoscerci ... un pò per incapacità di entrambi a riconoscerci ... un pò per colpa della cattiva segnaletica.

VECCHIO: Non andrai lontano come scrittore, con le frasi ad effetto! Ti fanno perdere di vista la sostanza delle cose.

IO: Non so, so solo che ora sono stanco e che non sono in grado di andare ancora avanti a raccontare. Me ne starei qui a ... a suonare la tromba: Basin St. Blues - ma io non so suonare in effetti.

VECCHIO: Ci risiamo con la stanchezza. E così non riesci mai a portare a compimento nessuna storia. Sempre questi incipit sfolgoranti ed accattivanti, con qualche misterioso indizio per spingere il lettore ad andare avanti, ma poi ... poi quando si tratta di risolvere il tutto, rimanete fregati entrambi, tu e lui. Ma tu sei il solo colpevole, perchè sei debole ed incostante. Ecco, in questo posso dire: sei un vero romantico!

giovedì 12 gennaio 2012

Oltre lo stereotipo del maestro



Spesso mi capita di usare lo spazio di questo diario online per esprimere pensieri, visioni, raccontare storie, criticare libri, film, eventi musicali, artisti, clip. Insomma uno spazio di sincerità, lo spunto per un'autoconfessione terapeutica.
Questa volta mi piace riempire questo contenitore con una testimonianza di una sessione creativa alla quale ho assistito ieri in presa diretta. Lo faccio perché in questo blog libero le mie idee migliori, che spesso mi piace anche condividere in spazi più crudelmente pubblici - tipo facebook - con l'idea di lanciare spunti di discussione.
Il soggetto della sessione creativa e' un gruppo di amici, con i quali condivido da anni la passione, per me felicemente totale, del tango: Salvo, Arianna, Silvia, Daniela, Giancarlo. Hanno costituito un collettivo di insegnanti di tango, che hanno chiamato Sinembargo Tangoclub, dove il termine "sinembargo" - che in spagnolo sta per "tuttavia" - mi piace pensarlo come un sinonimo di accoglimento delle differenze, come a dire: sei altro da me, tuttavia ho piacere di stare qui ad ascoltarti ed a confrontarmi con te. E il confronto e' la vera cifra stilistica di questo gruppo. Sono rimasto piacevolmente sorpreso nell'assistere alla modalità di insegnamento di fronte a due classi diverse, principianti ed intermedi: tutti e cinque si alternano nel proporre temi e spunti di approfondimento, nel fare movimenti e poi nel facilitarne l'apprendimento, nel seguire gli allievi ed anticipare la direzione della lezione. Il tutto con una sana dose di ordinata anarchia, che conferisce verve alla classe e che amalgama tutti i partecipanti, allievi ed insegnanti, in una sorta di atto teatrale improvvisato ogni volta, senza la distanza che si crea nella quasi totalità delle lezioni tradizionali e stage che si tengono altrove, in posti dove si tiene a ribadire lo status di distinzione della parola maestro, anche quando il maestro non è capace o peggio ancora non ha intenzione di trasmetterti nulla, contravvenendo alla prima regola distintiva della sua attribuzione.
In particolare a Roma, ci sono troppi maestri in giro, per quello che è il bacino d'utenza (espressione pessima), ma la maggiorparte di loro sono racchiusi, nemmeno velatamente, in una malcelata casacca mercantile, dove l'allievo, prima che essere un soggetto da aiutare nello sviluppo delle sue potenzialità, è un oggetto di speculazione, da blandire e coccolare solo per le potenzialità del suo portafoglio.
La struttura di insegnamento plurale è secondo me portatrice di conseguenze didattiche positive, a patto che l'intreccio dei contributi sia armonico, non caotico, pensato in modo da non confondere la classe. I Sinembargo hanno una didattica ricca di potenzialità ma, al tempo stesso, semplice ed accattivante nell'espressione, conoscono la materia che insegnano, ma soprattutto sono inseriti nel flusso vivo del tango, il quale non è un rudere ingessato, come qualche trombone argentino vuole far credere, ma è materia viva in continua evoluzione, da studiare e ripensare - e mettere in discussione - soprattutto da parte di chi ha la pretesa di insegnarlo.
Io l'ho abbracciato, sentendomi molto coinvolto dalla musica e dal movimento che ad essa si lega, e mi piace soprattutto sentire che il mio modo di interpretarlo è in continuo divenire, cambiando periodicamente l'approccio e l'espressione, comunque uscendo fuori dalla comfort zone di movimenti uguali che finirebbero per stancarmi. E qui ripenso con repulsione a chi invece vorrebbe mettere questa forma di espressione artistica sotto una campana di vetro, con ciò togliendole l'aria e facendola morire. Come se ballare un tango, anche lo stesso tango nell'arco di una vita, fosse uguale al movimento meccanico di un prete che recita sempre la stessa messa, senza nessuno stimolo per chi ascolta e per se stesso.
Il tango può essere insegnato trasmettendo la sintassi del gesto, ma anche incoraggiando gli allievi a fare, ciascuno, un discorso personalizzato, a costruire, utilizzando quelle note, quegli accordi, quei gesti, frasi improvvisate che raccontano ciascun individuo.
Ieri, assistendo alle lezioni di Sinembargo, a me è sembrato piacevolmente che in atto ci fosse proprio questo tipo di idea didattica, dove gli allievi sono mescolati a più insegnanti che fanno da tutor e non sono solo manichini di autocompiacimento edonistico.