mercoledì 1 febbraio 2012

DIALOGO MINORE


IO: Vorrei trovare una storia da raccontare ...

VECCHIO: Cercala ... ma nel posto giusto! Ci conosciamo da alcune settimane ormai, ma vedo e sento che tu sprechi il tuo tempo. So di essere diretto, anche se non c'è alcun legame tra noi: non sono un tuo parente, nemmeno un amico. Ma mi urta vederti girare attorno al nulla!

IO: E' facile per te parlare e giudicare! Tu hai tutto il tempo che ti serve: puoi fermarti per ricordare, puoi stare lì a ciondolare rigirando gli odori della cucina nel tuo naso, accarezzare la pipa, stare per interi minuti ad assaporare il sapore del tabacco sulla lingua. Io ... io non mi posso permettere tutto questo. E mi sento come una piccola ruota in una macchina che è sempre in moto. La mia testa è piena di piccoli dolori che si spostano continuamente da un capo all'altro. Io amo scrivere, ma mi sento sempre come se avessi un mattone sul capo, un mattone pesante che mi opprime. In passato avevo delle fulminanti e felici ispirazioni che mi guidavano. E raccontavo di personaggi strani, strani ma interessanti, curiosi; raccontavo storie avvincenti su di loro. Era come se non sapessi mettere che colori surreali sulla tavolozza, non adatti a rappresentare le immagini. Quello che veniva fuori dall'insieme, però, il più delle volte era un'immagine forte, che andava diritta all'osservatore, a volte persino felicemente commovente.

VECCHIO: Tuttavia anche ora stai rinunciando. Ti piace considerarti uno scrittore, i racconti dovrebbero essere il tuo cibo d'elezione, ma è come se stessi evitando di nutrirti. Forse sei solo un presuntuoso, che pensa di essere bravo a scrivere.

IO: Dovrei sentirmi ferito dalle tue parole, ma preferisco ignorarle. Potresti darmi dei consigli invece, ma forse non ti interessa aiutarmi.

VECCHIO: Hai detto che io ho tutto il tempo che mi serve, che io possiedo il tempo. Sbagli. Proprio perchè sento che non mi resta tanto tempo, cerco di scegliere quali azioni compiere, quali colori osservare, quali suoni rimanere ad ascoltare. Scelgo soprattutto le persone con cui parlare, come in questo momento in cui sto qui davanti a te.

IO: Ma allora perchè non mi aiuti ?

VECCHIO: Perchè non vedo una persona bisognosa di aiuto! Ti dirò: se vuoi raccontare una storia, devi essere capace di cercarla dentro di te. Non ti mancano le immagini. Viviamo tutti immersi in un oceano di immagini e, passivamente, ci lasciamo attraversare da milioni di oggetti in movimento. I nostri sensi sono abusati, completamente immersi in quella distesa di oggetti. Le storie che vorremmo raccontare sono già dentro di noi, tutti i suoni, le luci, gli odori, i volti, le strade, le foreste e tutto il resto sono depositati da qualche parte nel nostro cervello. Siamo come un pianoforte, che produce suoni ineffabili quanto più a lungo è stato esposto in una sala alle onde di un concerto ed ai battimani del pubblico. E allora cerca! Cerca dentro te! Ecco, ti aiuto: potresti incominciare dall'immagine di un uomo solo all'interno di un teatro, un uomo sul palcoscenico e con le spalle rivolte al pubblico. Suona la tromba. Fin qui niente di strano, solo che il teatro è completamente vuoto. Non c'è nessuno a parte lui. E suona: dallo strumento escono note piene di lirica bellezza, ma, peccato!, non c'è nessuno. Ecco: prova ad andare avanti.

IO: Mi sembra un'immagine stereotipata.

VECCHIO: E' solo un possibile incipit ...

IO: Però io non inquadro il palcoscenico. I miei occhi si sono spostati dietro le quinte, lungo un corridoio stretto e buio. Tutti i camerini degli artisti danno su quel corridoio, anche quello del nostro musicista. La porta è semiaperta, dall'interno filtra nel corridoio un filo di luce debole, malcerta. La porta potrebbe aprirsi, e in effetti si apre - non interessa il perchè. L'interno è squallido, sicuramente non diverso dagli altri camerini, in fondo si tratta di un teatro minore, lì si tengono solo spettacoli di serie B, per un pubblico svogliato. Comunque la luce ... la luce, dicevo, è cattiva perchè viene da una lampadina cattiva, sopra lo specchio. C'è un particolare inquietante: sul ripiano davanti allo specchio c'è un piattino, un cucchiaino ripiegato, una siringa con l'ago sporco di sangue. Almeno credo che siano sangue le gocce di liquido rappreso nel piattino.

VECCHIO: C'è uno spettro accanto a quel piattino, o forse sul palcoscenico, che suona.

IO: Non so dire se si tratta dello stesso spettro, ma sicuramente in quel camerino c'è stata qualcuno oppresso: un senso di solitudine meschina nascosta in un sordido camerino. Accanto al piattino c'è una foto molto consumata, quasi lacera, con il bordo strappato in alcuni punti. Nella foto una bambina con un grembiulino rosa e una tromba in mano.

VECCHIO: Forse l'uomo fuori sta suonando quella tromba.

IO: Così sembrerebbe. Ma forse questo dettaglio non è importante, ora. Mi sforzo di avanzare con lo sguardo all'interno del camerino, ma riesco a malapena a vedere le mie mani, vicino al viso. Forse ho paura, sicuramente sto tremando. Potrebbe essere freddo.

VECCHIO: Mancano ancora tanti elementi. Sappiamo molto poco di quell'uomo. Per quanto ne so, potrebbe essere solo l'immagine in un quadro. E il suono viene fuori forse da un giradischi.

IO: Non so, in questo momento sono lontano dal palcoscenico. Invece ritorniamo nel camerino buio. Mi muovo a fatica (io non sono lì dentro, ma è come se ci fossi, sono il lettore-osservatore, che è dappertutto e tutto può) quando ad un certo punto urto contro un oggetto di legno: mi sforzo di guardare bene, lo tocco. E' un cavallo a dondolo. Chissà se quella bambina ci ha giocato. Poi agito le mani, come a rovistare. Ma non riesco a restare ancora a lungo, c'è un acre odore di canfora che mi spinge fuori. Proprio non si riesce a resistere.

VECCHIO: Sembra però che tu ora stia cincischiando con particolari di nessuna utilità per la storia che vorresti raccontare. In realtà tutto è utile, ma devi trovare il modo di costruire un percorso che lega con un filo invisibile gli oggetti che trovi. Altrimenti l'esercizio è inutile.

IO: Non so. Forse hai ragione, ma per come la intendo io spenderei fiumi di parole per arrivare a descrivere nella scena madre il vero movente di tutto: e per me il movente è l'amore ... o la mancanza di amore, il che è lo stesso! Arriverei dopo diversi capitoli a rivelare che il trombettista ha amato la bambina, che forse bambina non è più. In fondo la foto era molto sgualcita e vecchia e può darsi che nel tempo presente la bambina si sia trasformata in una donna smaliziata. Comunque mi piace pensare all'amore, è l'unico motivo per il quale è concesso di rovinarsi la vita, di maledirsi suonando un blues amaro, ma come lo suonerebbe un trombettista jazz, con quell'impronta di malinconica e sdolcinata perdizione nella trama del suono. E non è detto che quella ragazza non lo abbia amato a sua volta. Può darsi di si, tutto può essere successo. Forse ci sono stati momenti nella vita dell'uomo in cui non è stato necessario infilarsi un ago nelle vene e poi soffiare la propria solitudine nel bocchino di una tromba. Ecco io ci vedo l'amore in questo racconto e cercherei di dare questo tipo di coloritura alle situazioni.

VECCHIO: Se la pensi in questo modo, vuol dire che stai mettendo in questo esercizio l'ispirazione che ti è più congeniale, forse non c'è stato amore a sufficienza nella tua vita. O forse non ce n'è stato affatto. Ho la sensazione che tu stia spostando questo racconto su un piano - inclinato - personale. E non è detto che questo sia sempre un bene, per lo meno per le sorti della storia.

IO: Non saprei. Ma sono d'accordo con te sull'amore: non ce n'è mai abbastanza o forse non ce n'è stato abbastanza, almeno fino al punto che si desidererebbe. Non so quanto c'entra quello che sto per dire, ma mi piace dirlo. Siccome sembra che la stia mettendo sul personale, è come se io e l'amore non fossimo in grado di riconoscerci ... un pò per incapacità di entrambi a riconoscerci ... un pò per colpa della cattiva segnaletica.

VECCHIO: Non andrai lontano come scrittore, con le frasi ad effetto! Ti fanno perdere di vista la sostanza delle cose.

IO: Non so, so solo che ora sono stanco e che non sono in grado di andare ancora avanti a raccontare. Me ne starei qui a ... a suonare la tromba: Basin St. Blues - ma io non so suonare in effetti.

VECCHIO: Ci risiamo con la stanchezza. E così non riesci mai a portare a compimento nessuna storia. Sempre questi incipit sfolgoranti ed accattivanti, con qualche misterioso indizio per spingere il lettore ad andare avanti, ma poi ... poi quando si tratta di risolvere il tutto, rimanete fregati entrambi, tu e lui. Ma tu sei il solo colpevole, perchè sei debole ed incostante. Ecco, in questo posso dire: sei un vero romantico!

giovedì 12 gennaio 2012

Oltre lo stereotipo del maestro



Spesso mi capita di usare lo spazio di questo diario online per esprimere pensieri, visioni, raccontare storie, criticare libri, film, eventi musicali, artisti, clip. Insomma uno spazio di sincerità, lo spunto per un'autoconfessione terapeutica.
Questa volta mi piace riempire questo contenitore con una testimonianza di una sessione creativa alla quale ho assistito ieri in presa diretta. Lo faccio perché in questo blog libero le mie idee migliori, che spesso mi piace anche condividere in spazi più crudelmente pubblici - tipo facebook - con l'idea di lanciare spunti di discussione.
Il soggetto della sessione creativa e' un gruppo di amici, con i quali condivido da anni la passione, per me felicemente totale, del tango: Salvo, Arianna, Silvia, Daniela, Giancarlo. Hanno costituito un collettivo di insegnanti di tango, che hanno chiamato Sinembargo Tangoclub, dove il termine "sinembargo" - che in spagnolo sta per "tuttavia" - mi piace pensarlo come un sinonimo di accoglimento delle differenze, come a dire: sei altro da me, tuttavia ho piacere di stare qui ad ascoltarti ed a confrontarmi con te. E il confronto e' la vera cifra stilistica di questo gruppo. Sono rimasto piacevolmente sorpreso nell'assistere alla modalità di insegnamento di fronte a due classi diverse, principianti ed intermedi: tutti e cinque si alternano nel proporre temi e spunti di approfondimento, nel fare movimenti e poi nel facilitarne l'apprendimento, nel seguire gli allievi ed anticipare la direzione della lezione. Il tutto con una sana dose di ordinata anarchia, che conferisce verve alla classe e che amalgama tutti i partecipanti, allievi ed insegnanti, in una sorta di atto teatrale improvvisato ogni volta, senza la distanza che si crea nella quasi totalità delle lezioni tradizionali e stage che si tengono altrove, in posti dove si tiene a ribadire lo status di distinzione della parola maestro, anche quando il maestro non è capace o peggio ancora non ha intenzione di trasmetterti nulla, contravvenendo alla prima regola distintiva della sua attribuzione.
In particolare a Roma, ci sono troppi maestri in giro, per quello che è il bacino d'utenza (espressione pessima), ma la maggiorparte di loro sono racchiusi, nemmeno velatamente, in una malcelata casacca mercantile, dove l'allievo, prima che essere un soggetto da aiutare nello sviluppo delle sue potenzialità, è un oggetto di speculazione, da blandire e coccolare solo per le potenzialità del suo portafoglio.
La struttura di insegnamento plurale è secondo me portatrice di conseguenze didattiche positive, a patto che l'intreccio dei contributi sia armonico, non caotico, pensato in modo da non confondere la classe. I Sinembargo hanno una didattica ricca di potenzialità ma, al tempo stesso, semplice ed accattivante nell'espressione, conoscono la materia che insegnano, ma soprattutto sono inseriti nel flusso vivo del tango, il quale non è un rudere ingessato, come qualche trombone argentino vuole far credere, ma è materia viva in continua evoluzione, da studiare e ripensare - e mettere in discussione - soprattutto da parte di chi ha la pretesa di insegnarlo.
Io l'ho abbracciato, sentendomi molto coinvolto dalla musica e dal movimento che ad essa si lega, e mi piace soprattutto sentire che il mio modo di interpretarlo è in continuo divenire, cambiando periodicamente l'approccio e l'espressione, comunque uscendo fuori dalla comfort zone di movimenti uguali che finirebbero per stancarmi. E qui ripenso con repulsione a chi invece vorrebbe mettere questa forma di espressione artistica sotto una campana di vetro, con ciò togliendole l'aria e facendola morire. Come se ballare un tango, anche lo stesso tango nell'arco di una vita, fosse uguale al movimento meccanico di un prete che recita sempre la stessa messa, senza nessuno stimolo per chi ascolta e per se stesso.
Il tango può essere insegnato trasmettendo la sintassi del gesto, ma anche incoraggiando gli allievi a fare, ciascuno, un discorso personalizzato, a costruire, utilizzando quelle note, quegli accordi, quei gesti, frasi improvvisate che raccontano ciascun individuo.
Ieri, assistendo alle lezioni di Sinembargo, a me è sembrato piacevolmente che in atto ci fosse proprio questo tipo di idea didattica, dove gli allievi sono mescolati a più insegnanti che fanno da tutor e non sono solo manichini di autocompiacimento edonistico.



martedì 29 marzo 2011

Lettera d'amore all'antenata


Vedo nei grigi soffusi del tuo viso in penombra il delicato racconto di un'altra vita, una presenza anteriore che cova nelle ceneri di uno sguardo spaurito. Era bella, sembra bella, e mi confonde con il suo mistero di musa mai conosciuta. Il suo volto è l'intreccio di mille immagini che hanno fatto si che tu fossi qui davanti a me, ora. Quella donna non conosceva pause nel suo modo di camminare, era lenta, costante, come una pausa di pianoforte tra due note alte. I suoi sforzi erano la pazienza e la forza della sopravvivenza, di una presenza debole e coraggiosa. Quegli occhi nerastri avevano perso tutto, ma volevano solo vedere più oltre l'orizzonte per cercare di uscire fuori dal groviglio della miseria. Era la fuga, era la volontà dell'amore che la spingeva a resistere alle angherie, ai morsi della fame, alle storture di un'esistenza monotona e desolante. E quando le stagioni si ripetevano uguali nella delusione delle speranze disattese, lei diventava ancora più minuta ma più bella: quella bellezza scaturiva da un gesto semplice, di un pettine passato con misurata lentezza tra i capelli anneriti dalla fuliggine del suo rifugio ed irrigiditi dall'umidità di un'aria cattiva.
Che ne sarà di lei ora che tu mi volti le spalle frugando altrove quelle risposte che io non ti ho potuto dare? Quel gesto, del cappello indossato all'incontrario e calcato sulla fronte, con un ciuffo che spunta all'infuori, mi congeda dalle mie responsabilità di persona evanescente. E mentre mi ripeto in un salmo di fedeltà inutile, quasi un auto da fé, il tuo nome, cerco invano di cogliere l'essenza dell'altra, della presenza nascosta che va via con te, l'unica donna forse che abbia mai amato veramente e che mai un passato da me non conosciuto mi restituirà.

martedì 15 febbraio 2011

SINDONE


Alla fine quando lui non ci sarà più fisicamente, perchè tutto è dest‌inato a crollare, anche gli edifici apparentemente più solidi, saremo costretti ad ammettere che ha vinto lui, comunque. E questa constatazione mi è molto amara.
Sto parlando di Berlusconi; e nel momento stesso in cui scrivo quello che ormai è diventato quasi un sostantivo indeterminato - e inevitabilmente lo pronuncio pure mentalmente - aggiungo un'altra ripetizione ad un'eco che si perpetua ovunque da quasi vent'anni. Da più di vent'anni. Non passa giorno senza che questo termine non venga invocato almeno una volta in nostra presenza e parlo al plurale perchè mi sento accomunato, in questa pittima, allo stato di una collettività. Io vivo in un paese che si trova come un malato mentale in un'angusta cella di manicomio, stretto nella camicia di forza e con la mente fissa su un'ultima immagine fatale. La fissazione, come chiave delle nostra comune condizione. Io non voglio ora fare necessariamente un discorso di parte, perchè anzi questo sarebbe scontato, considerando i valori politici ai quali mi sono sempre ispirato. Osservo che la società in cui vivo continua a vivere alienata, al di fuori della propria esistenza, dei propri problemi, perchè tutti si devono dividere su quanto sia ingiusto il berlusconismo e su quanto esso vada combattuto senza tregua, a cominciare dal proprio supremo esponente, oppure su quanto sia grande e reiterata all'infinito la persecuzione che lo insegue implacabilmente da tutti questi anni. E la divisione si inasprisce e quell'unico epicentro continua, volontariamente o involontariamente, a catalizzare i movimenti di ogni singola opinione. Dunque, indipendentemente dal giudizio di merito, positivo o negativo - ed il mio è drammaticamente negativo come il più disperato dei conflitti - lui ha vinto, perchè ha tenuto, sistematicamente, attraverso più generazioni - potremmo dire un'epoca - avvinghiata a sè tutta una società. Ha tenuto avvinghiati a sè quelli che gli si sono concessi e che hanno cercato di ottenere quanti più benefici possibile, attraverso l'antico mestiere della pratica cortigiana, che i giullari fanno per compiacere il loro signore, pur di arraffare poche briciole del suo potere. Ha tenuto avvinghiati a sè anche quelli che lo hanno strenuamente combattuto, alcuni per l'ispirazione di principi non negoziabili, altri semplicemente per il desiderio di espugnare il castello, scardinare il trono e rendere la fonte del potere un traguardo alla portata di una maggioranza di pochi, di un'oligarchia. Ha tenuto avvinghiati a sè anche coloro che non hanno ricevuto nessun sensibile beneficio dalla adorazione sincera o di facciata nei suoi confronti, i quali in molti casi hanno addirittura visto ridursi le loro speranze di benessere, per colpa delle politiche o dell'assenza di politiche da lui messe in atto. Ha tenuto avvinghiati a sè anche coloro che hanno masticato amaro, per colpa dell'impoverimento, materiale e culturale, che, come il morbo di un untore, si è allargato a vasti strati di società. L'impoverimento materiale non è stato meno grave di quello culturale, dell'arretramento di fronte all'etica del bene comune, anzi mano a mano che ci si è impoveriti, mano a mano che la speranza di solidità del futuro, del proprio futuro ma anche di quello della comunità, si restringeva, mano a mano che tutto ciò avveniva, cresceva anche il desiderio di rompere le maglie della trama sociale. Cresceva il desiderio di diventare più duri di chi ti stava intorno, soprattutto più furbi. Un'interpretazione deteriore del principio di evoluzione che voleva sempre più forte l'individuo, sempre più debole la catena delle relazioni.
Purtroppo non finirà con lui, perchè il berlusconismo non finisce con l'individuo Berlusconi. Certo questo avverrà al termine di una lunga e dolorosa agonia, in cui da opposte barricate si ergeranno campioni che si urleranno contro opposti aggettivi, mentre il capo, ormai avulso dalla realtà, continuerà a sussistere soprattutto nelle loro menti. La corruzione è stata la cifra di questi anni e lo è tutt'ora: non mi riferisco solo a tangenti, compravendite di oggetti e volontà. E' soprattutto la corruzione della capacità di giudizio che, di fronte a chiari sintomi di decadenza, di bruttezza, di deterioramento, di rapacità, di violenza, di mostruosità, di imbarbarimento, mi portano a combattere contro mio fratello per essere ancora più decadente, deteriore, violento, mostro, barbaro. E' come trovarsi in una casa che sta bruciando e, anzichè correre a prendere i secchi d'acqua, quanti più secchi è possibile, dandosi una mano tutti insieme, ci si lancia addosso tizzoni infuocati, perchè alla fine devo essere io a rimanere per ultimo sotto il soffitto che sta per crollarmi in testa. E non mi fa star meglio la convinzione, non la speranza, la convinzione, che il giudizio degli storici sulla mia epoca sarà inesorabile, che tutti quei fatti che ora si fa finta di non vedere o di ignorare deliberaratamente saranno fin troppo chiari a chi si limiterà ad esaminare da lontano nel futuro le convulsioni della società italiana di questo periodo. Con la caduta del boss, ci saranno moltissimi, come me, che assaporeranno, in un fugace momento di felicità, il sapore dell'aria fresca, come succede quando in una camera d'ospedale, troppo a lungo popolata da ammalati durante l'inverno, viene spalancata la finestra per far cambiare l'aria. Dopo i primi istanti di soddisfatto smarrimento, subentrerà la desolazione di chi osserva la città piena di macerie dopo il bombardamento a tappeto e con sgomento si rende conto di quanto immane sia l'opera di ricostruzione. Immane perchè gli spiriti animali continuano ad abitare negli occhi che si fissano con diffidenza e nei denti di chi non riesce a parlare perchè serra le mandibole per la rabbia. Ecco perchè ha vinto comunque lui. Siamo come avvolti da un lenzuolo in un obitorio, dove il tempo si è fermato.

domenica 26 dicembre 2010

Il soldato Lang

Origine dell'antieroe. Infanzia. Scoperta della diversità: la donna



L'estate di due anni fa fu chiamata l'estate dei grilli perchè nei campi e tra gli alberi e le verdure negli orti ne saltavano così tanti che gli occhi di chi guardava si scombinavano con le immagini: sembrava apparire una nuvola grigio arancione di puntini impazziti che si sciamavano contro. Bisognava poi capire il motivo di quella inondazione, e qualcuno doveva pur farlo se si voleva continuare ad avere un'agricoltura e soprattutto dei prodotti da vendere nei mercati. Ma questo a Lang non interessava. Appoggiato al tronco di un albero, restava fisso, sdraiato sul terreno, avvolto, come in un bozzolo, dallo sciame elettrico dei grilli che gli zompettavano sulla testa. E i suoi occhi guardavano fissi verso l'orizzonte, al di sopra della collina alla quale si addossava la città. Una colonna di fumo saliva in alto. Lang sapeva di cosa si trattava. Oltre quella collina c'erano tredici chilometri di trincea, ed anche se quella trincea era più immaginata che veramente scavata, gli sembrava come una barriera metallica, contro la quale cozzavano i due eserciti. Quegli urti gli avevano cambiato l'esistenza negli ultimi cinque anni: più che altro si trattava di assalti alla baionetta, di tiri di fucile, di scambi di mitragliatrice, di fraseggi di mortaio. A volte i fuochi, specie di notte, erano così intensi, così continui che pareva che due grandi braccia si stringessero le mani da entrambi i lati della trincea. A tutto questo ripensava Lang, immerso nel ronzio dei grilli, anzi non pensava affatto, tanto era diventato monotono quello spettacolo.
In quella landa di terra senza particolari attrattive la guerra aveva eletto uno dei suoi pulpiti più appassionati: le operazioni erano intense, gli uomini si fronteggiavano senza risparmiarsi, gli assalti dall'una e dall'altra parte non si contavano più. Soprattutto quello che stupiva era la riserva di uomini in grado di andare a morire: questo serbatoio sembrava inesauribile. Lang contemplava dalla sua posizione di riposo sotto l'albero quelle sequenze di operosità bellica e, nello slancio poetico che gli era proprio, non poteva fare a meno di paragonarle allo scattare dei grilli sopra la sua testa.
Dicevo che quella guerra gli aveva cambiato la vita, perchè aveva modificato drasticamente le sue abitudini: tanto per cominciare aveva limitato le sue possibilità di movimento, restringendole ad un solo lato del campo di battaglia, quello delle contrade a sud della collina, un territorio sconosciuto che non gli apparteneva perchè non apparteneva alla sua infanzia ed alla sua giovinezza. Lang era cresciuto nella città di Saint Augustine, quella rocca di case di pietra che si stendeva sull'altro fianco della collina. I tetti della parte più alta facevano capolino sulla cima dell'altura. Di Saint Augustine ricordava i vicoli angusti ricolmi di ombre e di frescura durante l'estate, quei vicoli pieni di nascondigli dove passava i pomeriggi interi, quando aveva otto anni, ad aspettare che passasse Marghreth. Ogni pomeriggio, dal mese di giugno a quello di settembre, Marghreth scendeva giù, attraverso la via principale, in compagnia della zia e Lang appiattito dietro le scale di un uscio, in uno dei tanti vicoli laterali, stava lì a guardarla, rubando quei momenti della sua passeggiata, con la bocca aperta ed un filo d'erba di traverso incollato alla piegatura delle labbra. La ragazzina camminava con le gambe leggermente arcuate e i piedi rivolti verso l'esterno, con dei saltellii che inscenavano una specie di danza improvvisata, mentre la zia con degli strattoni improvvisi cercava di guadagnare la nipotina ad un percorso più disciplinato. Marghreth aveva i capelli rossi con due trecce laterali che ciondolavano attorno alla sua testolina e portava sempre un vestitino con la gonnellina così inamidata da essere quasi sollevata. Dopo che il piccolo corteo delle due donne era passato, Lang usciva dalla sua tana e, cercando nuovi nascondigli, le seguiva per un tratto di strada. I continui cambi di direzione di Marghreth lo costringevano anche a buttarsi improvvisamente a terra, in qualche fosso oppure dietro qualche scalinata, per non farsi vedere. Sempre il suo inseguimento cessava alla fontanella del corso, dove si rinfrescava i capelli biondi dall'arsura estiva e ripensava alla pelle dolce e delicata di Marghreth. Non c'era niente da fare a Saint Augustine per un ragazzo come Lang, in particolare per lui che evitava di andare a scuola, avendo anche il privilegio di non essere appesantito dalle botte di genitori o di altri parenti custodi. Nessuno ricorda di averlo mai visto, quando era bambino, in compagnia di un adulto e nessuno a quel tempo si curava di sapere dove vivesse quel bambino e come facesse a mangiare. Prendeva il cibo dove capitava, magari in alcuni casi si sarebbe potuto dire che rubava, ma non era propriamente così.
Dall'inizio dell'adolescenza incominciò a frequentare due individui, due coetanei, e si formò un trio di contemplativi. C'era Cirillus, un ragazzo molto alto, magrissimo, le cui guance incominciarono molto precocemente a riempirsi di peli irregolari. Questo accenno di barba, uno sguardo scavato e quasi incupito e il fatto che non parlasse mai, che stesse sempre zitto, quasi avesse fatto un voto del silenzio, gli davano un'aria di maturità, un'età superiore ai suoi anni veri. Poi c'era Petit, il più basso, dal corpo tozzo e le gambe corte, con un collo largo quasi quanto le spalle e la testa quasi calva con un ricciolo di capelli irti. Ecco, a guardarlo da lontano sembrava un mozzicone di candela in procinto di essere acceso. Cirillus, forse proprio per la sua apparente anzianità, era di solito preso di mira dagli altri due nei loro scherzi, che erano a volte pesanti, come per esempio cospargergli la testa di ogni specie di insetti, mentre era appisolato sul prato, oppure orinare sui suoi piedi, quando rimaneva assorto nei suoi pensieri mentre fumava. Erano dei contemplativi, perchè la loro occupazione prediletta era non far nulla, l'ozio, possibilmente sdraiati da qualche parte a guardare in qualche punto imprecisato del cielo o della terra, e di tanto in tanto rompevano questo stato di quiete lanciandosi qualche sasso. Lang prese a pensare spesso a Marghreth, anche se si può dire che non fosse ancora stato colto da una forma di innamoramento, era solo che stava attraversando il periodo in cui i maschietti scoprono la presenza delle donne, incominciano a coglierne le differenze e sono portati in uno stato di affascinata curiosità da tutto questo. Ogni giorno trovava il modo di farsela comparire nelle vicinanze, come se l'avesse evocata, sempre in compagnia di qualche adulto. La prima volta che la sorprese sola fu quando lei si allontanò dalla zia, dando un secco strattone alla mano di lei, per andarsi a rintanare dietro un cespuglio ad orinare. Lang era nascosto dietro un masso vicino al posto dove era lei, perchè l'aveva seguita in uno dei suoi pedinamenti pomeridiani, ed osservava tutta la scena, trattenendo il respiro. Lei volgeva le spalle a lui, con le palme delle mani puntate sul terreno e la testa protesa in avanti. Lang vide per la prima volta un ciuffo di peli scuri dal quale fuoriusciva un getto liquido, come una fontanella, ed i suoi occhi stettero per strabuzzare. Stette impietrito e senza respirare per una manciata di secondi interminabili mentre nel suo petto il battito correva furioso. Poi lei, con un gesto rapido, strappò dell'erba e se la passò lì come uno straccio, si alzò, si risistemò le mutandine e il vestitino e scappò via. Il ragazzo rimase sul luogo della scena come una statua, con uno sguardo allucinato ed un accenno di sorriso, finchè non scoccò uno schiaffo con una manata potente di Petit a risvegliarlo. Da allora pensò spesso a quella strana ed attraente peluria e cercò di procurarsi altre occasioni per osservarla, sia addosso a Marghreth sia addosso ad altre donne. E spesso ci riusciva. I tre incominciarono a condividere questo tipo di passatempo e questa loro ricerca li rafforzò nella posizione di contemplativi.
Facevano a gara a chi riusciva ad occhieggiare più cimeli di quel genere e, dopo ogni avvistamento, si scambiavano dettagli, racconti concitati, finendo a volte per litigare quando non erano d'accordo su qualche particolare importante. Entrarono così nell'alba della giovinezza, senza crescere veramente, con l'incoscienza del gioco propria dei ragazzi. Per facilitarsi il compito in queste ricognizioni di donne nude o semi spogliate, considerando che per strada le loro prescelte andavano camminando vestite e che quindi gli avvistamenti all'aperto erano pressochè impossibili, decisero che dovevano alzarsi da terra per puntare i loro occhi indagatori nelle stanze da letto o nei bagni dei piccoli caseggiati di Saint Augustine, dove era più probabile che si aggirassero quegli strani animaletti pelosi che le donne portavano addosso. E perchè il sistema funzionasse davvero si aiutarono con una scala che avevano preso nel fienile del padre di Cirillus. E così attrezzati riuscirono ad effettuare molti più avvistamenti che in passato, e molto più comodamente. Siccome sulla scala non si poteva stare in tre, ogni volta, dopo averla messa in posizione, tiravano a sorte per decidere chi sarebbe salito di vedetta. Una scala appoggiata ad un muro con un ragazzo in cima intento ad osservare all'interno di un'abitazione poteva forse costituire una scena non gradita per i passanti che vi si fossero imbattuti, soprattutto di giorno, per cui i tre, per essere sicuri di agire in tutta tranquillità e senza essere scoperti, pensarono bene di dedicarsi alle loro esplorazioni durante la no‪tte, cosa abbastanza semplice per Lang che viveva solo, mentre Cirillus e Petit dovevano furtivamente sgattaiolare fuori delle loro case, di nascosto dalle loro famiglie. Il luogo convenuto per questi raduni notturni era accanto ad un vecchio pozzo asciutto, fuori città, al cui interno nascondevano la scala. Quando si incontravano, senza parlarsi, si cimentavano in una specie di rituale di reciproco incoraggiamento, durante il quale si lanciavano delle occhiate a metà tra il divertimento e la sfida e subito dopo incominciavano a spintonarsi e a prendersi a capocciate nello stomaco, come torelli che si lucidavano le corna in procinto delle cariche. Quando erano sufficientemente indolenziti ed impolverati ed anche con i capelli pieni di fili d'erba, disciplinati come uno squadrone d'assalto, prendevano la scala, se la caricavano sulle spalle, infilando le teste fra gli scalini, e, con passi silenziosi, si dirigevano alla volta della casa dove avevano deciso di fare l'avvistamento. Per potersi muovere più agilmente, senza intralciarsi, data la differenza di altezza, si sistemavano in modo da avere Petit a prua, Lang nel centro e Cirillus a poppa di quella immaginaria scialuppa. La formazione cosiffatta funzionava a meraviglia, solcando veloce le onde dei girasoli agitati dai soffi del vento notturno: agli occhi di occasionali ubriachi, che si fossero imbattuti in quella scena al chiaro di luna, si presentava l'illusione di un serpente a tre teste che scivolava in un sibilante fruscio sulle onde del prato, quasi una magica creatura della notte.
La scelta della donna da sottoporre ad osservazione non era mai lasciata al caso: i tre non prendevano in considerazione le più belle ma quelle che secondo loro potevano aggiungere qualche elemento di novità al loro campionario ormai vasto di immagini rubate. Il più delle volte si trattava di donne mature, grasse, dal fisico generoso o comunque con qualche caratteristica del corpo che lasciasse in qualche modo presagire nuove scoperte. Una volta decisa la donna, Petit, che era quello dei tre con più facilità a nascondersi data la statura, la pedinava per scoprire dove abitava e come si dovesse impostare l'operazione di avvistamento. Quando la prescelta si infilava nell'uscio di quella che aveva l'aria di essere la sua abitazione, Petit, da bravo soldatino scrupoloso, rimaneva nelle vicinanze per avere la con​ferma che ella abitasse proprio lì e per capire quale fosse la finestra giusta dove guardare all'interno e dove andasse sistemata la scala. Era un'operazione vera e propria di assedio, in cui la vittoria era assicurata dalla cura di ogni minimo particolare. Bisognava dunque stabilire quale finestra fosse la più adatta per osservare - e qui c'era sempre un certo margine di incertezza - e quale era lo scorcio di muro contro cui appoggiare la scala, che era ormai una vera e propria macchina da guerra, quasi un ariete di quelli usati nel passato per dare l'assalto ai muri di cinta delle città. Infine bisognava fare in modo da raggiungere l'obiettivo possibilmente al primo tentativo, perchè, se si fosse dovuta ripetere tutta l'operazione una seconda od anche una terza volta sulla stessa abitazione, sarebbe stato molto probabile per i tre essere colti in flagrante e a quel punto non rimaneva che darsela a gambe, a gambe levate, con la scala che andava assolutamente recuperata. Non era infrequente, ai soliti ubriachi, sempre persi a contemplare la luna di notte, rivedere lo stesso mostro tri-cefalo correre goffamente fuori del centro abitato, nella campagna deserta, al sicuro da possibili inseguitori.
Per i tre ragazzi quella che forse non era un'iniziazione alla vita era sicuramente l'occasione per crescere senza che il peso della responsabilità, di qualunque tipo di responsabilità, li facesse diventare veramente vecchi prima di essere veramente giovani.
Una volta decisero di compiere un avvistamento sulla zia di Marghreth, più simile ad un corvo che ad una donna per la severità della sua camminata, fatta di passi ampi e tutti uguali, e per il fatto che si guardava attorno con movimenti rapidi e duri del collo, mantenendo invece la testa immobile. Non sembrava davvero un essere umano, soprattutto per Lang era la macchina di sorveglianza di Marghreth. I tre erano decisi a capire cosa ci fosse sotto i suoi abiti, se un corpo umano, con parvenze, anche vagamente, femminili, oppure uno spaventapasseri dotato di movimenti umani e magari anche di un'anima. Per la zia di Marghreth decisero di mettere in pratica un piano diverso dal solito: la donna viveva sola in una casa all'interno di un campo incolto recintato, fuori città. La casa era circondata da alberi non curati e cespugli frondosi, intervallati da ampie sterpaglie. Non era una casa colonica abitata da agricoltori operosi, era solo un'abitazione che si presentava in maniera sciatta agli occhi di chi si avvicinava ad essa. L'abbondante presenza di vegetazione tutt'intorno faceva sì che fossero disponibili molti punti di osservazione, dai quali si poteva guardare verso il caseggiato, ed anche al suo interno, senza rischiare di essere scoperti. Questa volta si risolsero a fare l'avvistamento di giorno. Portarono come di consueto la scala, ma non la usarono perchè davanti alla finestra dove Petit aveva rilevato i segni della presenza della megera era piazzato, in posizione comoda, un grosso albero di nespole selvatiche: i rami in quel periodo erano pieni di frutti che li facevano incurvare tanto che qualcuno si spezzava sotto il peso dei pesanti grappoli di nespole. Il tronco era nodoso e presentava diversi appigli da usare per la scalata. Tirarono a sorte e toccò a Lang andare su. Lang accettò riluttante forse perchè non gli piaceva di dover essere proprio lui a dover vedere nuda una persona che era collegata a Marghreth, verso la quale provava un premuroso riguardo. Ad ogni modo fece un'alzata di spalle, diede uno schiaffo a Petit, per darsi coraggio, e, inserito il piede in una cavità del tronco, balzò su. Quando giunse in cima si sistemò a cavalcioni di un ramo che gli sembrò robusto abbastanza per reggerlo. Rimase in quella posizione per qualche ora, con il sole estivo che gli scaldava forte la testa e gli aveva annebbiato gli occhi. Giù i suoi due compari si erano scelti dei rifugi di comodo dove aspettare indisturbati. Sonnecchiavano e di tanto in tanto si sentiva qualche sbadiglio imprudente. Lang aveva fissato lo sguardo dentro la finestra di fronte alla sua posizione, ma non riusciva a vedere granchè perchè i movimenti all'interno di quella stanza erano protetti dalla penombra e poi perchè la luce fuori si era fatta così intensa che gli sembrava di dover osservare attraverso un lenzuolo bianco: tutto gli appariva sfocato. Sotto la cottura del sole era entrato in una condizione di dormiveglia ed era rimasto con la testa appoggiata al tronco. Era messo ancora così, quando sentì improvvisamente scricchiolare una porta all'interno. Aprì gli occhi e cercò di mettere a fuoco quello che avveniva nella stanza: l'apertura di quella porta aveva portato la luce di una lampada che ardeva nella stanza accanto e, senza più l'ostacolo della penombra, si riusciva a vedere chiaramente quello che avveniva. Una figura di donna, avvolta in un panno bianco, entrò, Lang capì che stava uscendo dal bagno, perchè si intravedeva una vasca dietro di lei. Quella era la zia che si stava vestendo, quindi tra qualche istante avrebbe visto ciò per cui era salito su. Lei infatti si tolse il panno e rimase nuda, ma un lamento sordo rimase strozzato nella gola di Lang quando si accorse che lei non aveva addosso nessun animaletto peloso, come tutte le altre donne che avevano visto. Era stranissimo perchè sembrava che lei fosse nuda anche in quella parte del corpo e che lì ci fosse, tra le gambe, una fessura, quasi un taglio. Lang non si aspettava questa novità e si spostò in avanti sul ramo per guardare meglio. Quello che accadde dopo fu questione di secondi: dal bagno uscì una figura di uomo, nudo questa volta, che, con il naso adunco puntato fuori dalla finestra, si accorse della figura sull'albero e subito urlò ed afferrò una mela dal vassoio per lanciarla contro quel ramo. Proprio in quel momento Lang, scoperto, perse l'equilibrio e si aggrappò ancora più stretto al ramo, ma questo, sotto il peso delle nespole e dell'intruso, si spezzò nel medesimo istante in cui la mela arrivava. La mela non centrò il ragazzo, che stava già cadendo, ma sibilò tra i rami. Lang cadde a corpo morto sul terreno e subito fu investito da una pioggia di vespe: la mela infatti aveva preso in pieno un nido tra i rami del nespolo e le vespe inferocite si erano riversate sul corpo del ragazzo che incominciò ad urlare per le punture degli insetti. Cirillus e Petit, vista la situazione, riempirono due secchi dall'abbeveratoio e li rovesciarono a piccoli getti su Lang che si contorceva per terra come un matto. Alla finestra c'era l'uomo che minacciava agitandosi contro quei ragazzi: era Bertus il cantiniere, l'avevano riconosciuto, un'uomo timido, che non metteva mai il naso fuori dalla bottega. I tre ragazzi si lanciarono occhiate di intesa e visto come tutto era finito incominciarono a ridere fragorosamente ed a lanciarsi altre secchiate addosso, il che era un piacere nell'arsura del meriggio estivo. Ridevano in mezzo agli spruzzi d'acqua e lanciavano anche qualche sasso contro la finestra da dove Bertus inveiva. Lang, mentre era a terra, intento a ribattere ai calci di scherno degli altri due, si accorse di due occhi che lo fissavano dal fienile accanto al piazzale: era Marghreth che osservava tutta la scena, per niente divertita. Il ragazzo continuò ad urlare e a scalmanarsi con i suoi amici, ma la sensazione di quello sguardo, che gli sembrava di rimprovero, gli trasmise una certa inquietudine. Più tardi, mentre una scala con tre paia di gambe correva nei campi, verso Saint Augustine, il piazzale rimase presidiato solo da un cane marrone che guaiva solo.

(A Fiamma)

domenica 5 dicembre 2010

La dolce morte




Tutto ciò che è fatto di ingranaggi, di ruote, di giunti cardanici, di alberi di trasmissione, di differenziali, tutte le costruzioni meccaniche che trasformano l'energia dei nostri pensieri in movimento, sono esseri animati, sensibili, degni di ogni riguardo e dunque meritevoli di rispetto anche nel momento più alto di un'esistenza: la morte.

* * *

Scena di dialogo attorno al destino di una vecchia automobile in procinto di spirare.


- ... così le chiedo di porre ogni cautela nell'accompagnare la vecchia Trudy all'ultima ora. Voglio che abbia ogni attenzione, lei mi è stata una fedele servitrice, mi ha sempre portato dove volevo, non mi ha mai dato problemi, anche nelle condizioni più avverse del cielo e della strada. Per questo voglio che muoia senza soffrire, senza ammaccature, sfondamenti, rumori molesti. Voglio che si spenga cullata dalle sensazioni più piacevoli. Voglio - e qui la sua voce si faceva d'un tratto rotta dai singhiozzi - che non pensi che io l'ho abbandonata, voglio che si senta circondata da tutto il bene che le ho voluto. - A parlare era una vecchia signora, sulla sessantina, avvolta in un collo di pelliccia di castoro, dal pelo logoro e con molte macchie. Era bionda in modo smaccatamente vistoso, forse portava una parrucca, le braccia nude esibivano grinze impietose, intervallate da qualche livido, gli occhi erano quasi sepolti da chiazze di mascara plumbeo, distribuito con ditate malferme ed imprecise, lo stesso mestiere era stato fatto con il rossetto che le disegnava un'altra bocca, del tutto diversa da quella sua propria. Di fronte a lei c'era, in canottiera, unto come una fetta di pane imburrato, Kowiecz, detto il Mostro, perchè di lui si diceva che molti anni fa avesse una mole imponente e che le sue braccia fossero talmente forti da sollevare una vettura di media cilindrata. Questo nonostante che davanti alla vecchia ci fosse ora un ometto alto appena un metro e venti, magro tanto da sembrare denutrito; ma nessuno si chiedeva come avesse fatto il Mostro a rimpicciolirsi con gli anni, era del tutto normale che lui fosse considerato il Mostro.
Kowiecz era l'addetto alle demolizioni della ditta Rooster, il cui giro di affari andava dalla fabbricazione dei reggiseni, al latte in polvere per neonati, alla demolizione delle auto. Nessuno usava la parola demolizione, nella società delle Macchine Viventi si preferiva parlare di "terminazione".
- Vuole il trattamento deluxe, - rispose Kowiecz - oppure il trattamento distinguished ? Sono le procedure migliori che abbiamo. Con il deluxe la sua auto avrà un trattamento extra-lusso a base di cere e lucidature con sostanze naturali, poi ci sono i flussi profumati mentre la vettura viene posizionata sui rulli, all'interno della galleria del vento. Dico: mentre simuliamo le alte velocità, la macchina è investita di delicati soffi di aria profumata all'essenza che lei sceglierà nel catalogo. Poi nella camera ambientale andiamo a riprodurre le piogge sotto forma di delicate docce emozionali. Al posto di goccioline di acqua, lei signora può scegliere di avere una nebbiolina di essenze miste, che accarezzano il metallo della carrozzeria, come in un massaggio terapeutico. -
Mentre spiegava questi dettagli con un foglio sgualcito ed unto, il catalogo, nella mano sinistra, sul quale puntava di tanto in tanto una matita, che teneva riposta come una freccia in un ciuffo di peli lunghissimi sotto l'ascella dello stesso braccio, e con la mano destra si ripassava un pettine annerito tra i radi capelli sui quali rispargeva in varie direzioni una gelatina giallastra, il Mostro Kowiecz lanciava occhiate indagatrici alla direzione di una macchina che sostava poco lontano. Dal finestrino del guidatore si sporgeva, di tanto in tanto, un volto giallo. Sembrava quello di un giovane, ma l'età era difficile da indovinare. Suonava il clacson e chiamava la vecchia: - Dai, Susie, falla finita! Tu e le tue fissazioni! I ragazzi ci aspettano al biliardo. Sbrigati! - Di quella faccia si vedevano un paio di occhiali da sole, con le lenti di color metallo, e due grossi denti incisivi, gialli, quando apriva la bocca per parlare. Sembrava un roditore, seduto al volante di una berlina.
La vecchia, incurante dei richiami, continuava: - Sa, noi non siamo ricchi, io ed il mio ragazzo laggiù, ma io ho bisogno di sapere che la mia Trudy abbia una fine con tutti i riguardi, - diceva, mentre due lacrime, una per occhio, scivolavano giù, sciogliendo parte del trucco attorno agli occhi e lasciando due scie vistose.
- Se non può spendere molto, - fece il Mostro - ... sa tutti questi particolari, quelli del trattamento deluxe, costano, però poi la gente rimane soddisfatta ... allora possiamo fare una via di mezzo tra i due trattamenti. Il deluxe viene 3000 scudi, il distinguished 2000 ... se mi dà 2300 scudi, posso lasciare le lucidature con le creme essenziali, ma le docce emozionali sono al naturale, con goccioline di acqua e i flussi nella galleria del vento sono di aria pura, senza profumi. Però l'aria la portiamo ad una temperatura che fa molto bene al metallo della carrozzeria. In compenso, posso farle una trattamento di riguardo, - Kowiecz chiuse gli occhi a questo punto - le faccio lasciare il trattamento musicale nella fase finale. Però non lo dica in giro... -
La vecchia lo fissò con un mezzo sorriso inespressivo: - Io la ringrazio per questo, - disse - ma tutto quello che sono riuscita a mettere insieme con il mio ragazzo ... sono questi! - ed allungò un fascio di banconote all'uomo. Erano 1500 scudi. Kowiecz contò quel denaro una prima volta, poi una seconda, con dispetto, strofinando le banconote, come a voler cercare di trovarne di nascoste o semplicemente appiccicate. Non ne trovò: erano proprio 1500 scudi! A questo punto chiuse gli occhi, come se stesse immergendosi in chissà quale complicato pensiero. Il gozzo si gonfiò e il labbro inferiore si sporse esageratamente in avanti, a significare quanto fosse assorto. Sembrava un grosso rospo, quella metamorfosi era davvero incredibile, era davvero un Mostro. I raggi del sole proiettavano un'ombra sul muro che, a seguito di quella trasformazione, sembrava quasi essersi raddoppiata in grandezza.
- Allora, brutta stronza di una vecchia, ti decidi ? - fu gridato dalla vettura che aspettava. - Cosa vuole quel coglione ? Stiamo qui facendo tardi, ci aspettano al biliardo, se non ti sbrighi il capo ti romperà il culo e nemmeno le marchette ti farà fare stasera! Devo uscire io ? - Il roditore aveva perso la pazienza e, a quelle parole, l'ombra del Mostro ritornò normale, si sgonfiò. Aprì gli occhi, inghiottì il labbro inferiore e disse: - Vedrò cosa posso fare! Ora lasci le chiavi inserite. La settimana prossima è pronto il file. - Stava per girare le spalle ed entrare nel capannone principale della Rooster, quando una mano raggrinzita si stampò sulla canottiera per trattenerlo: - Io la ringrazio, caro, - disse la vecchia - sono sicura che il suo sentimento di pietà accompagnerà la mia Trudy dolcemente all'ultimo istante, senza farla soffrire! Io la ringrazio ... la ringrazierò ... mi premurerò io stessa di sdebitarmi, troveremo sicuramente il mezzo! - e accompagnò queste parole con uno sguardo di lasciva complicità, mentre si accarezzava un seno raggrinzito.
Il Mostro sorrise con un mugugno sordo, infilò la matita nel ciuffo sotto l'ascella e rientrò. Subito dopo, con una sgommata il roditore e la vecchia si allontanarono.
La macchina, l'automobile Trudy, rimase sul piazzale davanti alla Rooster. Non era rimasto più nessuno lì, stava facendo sera ed era rimasto vuoto. Poi fu notte e la brina calò sul metallo della carrozzeria. Il mattino dopo le prime luci la trovarono lì ferma, rassegnata, in attesa.
Venne il suo turno e gli operai la spinsero dentro. Innanzitutto fu pulita ben bene all'interno, furono raccolte tutte le cicche spente, le cartacce, i peli, le zolle di terra, qualche foglia rinsecchita. Fu tolto persino un vassoio da colazione rimasto sul sedile posteriore, forse per molto tempo, a giudicare dalla polvere che lo ricopriva. Gli addetti alla ripulitura aspirarono tutta la polvere che si era depositata e la lavarono, dentro e fuori, con uno shampoo che lasciava un cumulo di piccole bolle, quando veniva passato con gli strofinacci di pelle di daino. Questo era giusto il preliminare, nel senso che, se prima non fosse stata pulita per bene, l'auto non sarebbe potuta essere presa in consegna dagli specialisti di secondo livello, quelli che venivano chiamati "i sensitivi" o della "zona sensibile", perchè qui incominciava il vero e proprio percorso verso la terminazione o dolce morte.
I sensitivi indossavano tute azzurre e erano selezionati con criteri molto rigidi. Essi si rassomigliavano tutti, avevano la stessa statura, lo stesso colore dei capelli e degli occhi e dovevano essere il più possibile simili allo stereotipo del primo sensitivo, il leggendario Jonas Rooster, che più di un secolo fa, all'avvento della società delle Macchine Viventi, aveva messo in piedi questa attività, che più che un servizio di business era un servizio sentimentale. Chiunque avesse un'automobile che si avviava al termine del suo ciclo di vita, si rivolgeva alla Rooster o ad azienda analoga. Tutti avevano l'obbligo, e c'erano delle leggi in tal senso pure, di terminare le loro vecchie auto, nel completo ossequio della meccanica. Questo garantiva che l'armonia complessiva all'interno della Grande Macchina Superiore fosse conservata od alterata il meno possibile. Era infatti un dato di fatto che, per ogni autovettura portata alla dolce terminazione, si creasse, quasi specularmente, da qualche altra parte della Grande Macchina Superiore un nuovo organismo meccanico, perfettamente regolato e funzionante. E gli uomini, che poi erano gli abitanti della Macchina, ne beneficiavano.
Quando l'automobile veniva presa in consegna dai sensitivi e quindi entrava nella fase della terminazione, ogni accadimento era ripreso da telecamere, piccole o grandi, sistemate lungo il percorso. Perchè si arrivasse al momento culminante, l'automobile doveva essere preparata. Dopo la prima pulizia, necessaria perchè fosse introdotta nella zona sensibile, seguiva un'accurata visita del cofano motore e un test di tutte le funzionalità della centralina. Perchè la terminazione avvenisse, tutto doveva essere riportato nel pieno delle funzioni, e quindi venivano sostituite lampadine, candele, guarnizioni, pistoni, pneumatici, molle, ingranaggi, liquidi, lubrificanti o di altro genere. Tutto doveva essere di prima qualità e della stessa marca del pezzo sostituito. Insomma la vettura veniva rimessa a nuovo prima del fine vita. Tutto ciò era necessario affinchè nell'ultima ora prima della fine, con la macchina sistemata sui rulli ed il motore spinto al massimo, il suo rombo fosse il più chiaro e puro ed alto possibile, mentre tutta la carrozzeria era scossa da un'energica ondata di vibrazioni di velocità che riempivano la camera di terminazione di tonalità metalliche.
La carrozzeria veniva rilavorata e passata a lucido, ripianate le eventuali ammaccature e graffiature e lucidata con creme a base di unguenti animali ed olii vegetali. Poi, in una successiva fase di micro-tempratura, che era quasi un massaggiamento, la vettura era investita da docce emozionali, con i getti diretti dolcemente dappertutto e di temperatura variabile ed alternata tra il caldo ed il freddo. I passaggi erano graduali e piacevoli. La tariffa concordata per Trudy prevedeva docce emozionali di pura acqua, ma con un supplemento era possibile avere un servizio a base di essenze profumate.
Dopo si procedeva con l'asciugatura a mano, dopodichè la macchina era portata nella camera sensibile, montata all'interno di una galleria del vento. Qui si svolgeva l'atto finale, il climax. L'auto veniva posizionata sui rulli ed un Rooster sensitivo si sedeva al suo interno, avviava il motore, accendeva i fari e incominciava a premere progressivamente sull'acceleratore, fino a raggiungere la velocità massima. All'esterno flussi di aria - non misti ad essenze profumate perchè per Trudy non era stato acquistato il trattamento deluxe - investivano la vettura, mentre su schermi cinemascope posizionati tutt'intorno venivano mandate immagini di automobili che correvano su strada. L'effetto complessivo era quello di una migrazione di massa lungo una grande via terrestre, quasi un branco di organismi meccanici che si muovevano in libertà. Il cielo poteva essere, a scelta, quello di un giorno di pieno sole, ma era anche molto richiesto quello notturno, punteggiato di stelle. Ma non era ancora tutto. Il rombo del motore, crescente fino all'apice, si mescolava con la riproduzione potente della Cavalcata delle Valchirie di Wagner, che era emessa da altoparlanti disposti a semicerchio attorno all'automobile. L'effetto complessivo della mescolanza del rombo del motore e della cortina sinfonica delle Valchirie era davvero grandioso: il climax avveniva quando si raggiungeva la fusione tra le due fonti sonore, ed era veramente spettacolare, anche se i sensitivi avevano tutti le orecchie protette da cuffie, perchè il livello sonoro era veramente assordante. A quel punto, l'acceleratore era rilasciato di colpo, il rombo diminuiva a poco a poco, e così la musica, gradatamente, in un amalgama che non era più sciolto, fino alla dissoluzione, al silenzio, allo spegnimento di tutto. Quando ogni movimento cessava, insieme con ogni fonte sonora, gli uomini Rooster si raccoglievano in un lungo e fragoroso applauso. Ecco: la terminazione era avvenuta e la macchina aveva cessato il suo ciclo di vita. Tutto questo percorso, culminante nel climax finale, era necessario perchè nella Grande Macchina Superiore si creasse un movimento di continuità tra la fine di una parte e l'inizio simultaneo di un'altra parte. Era come un riversarsi dell'energia da una parte all'altra.
Tutti i momenti di questa fine erano ripresi dalle telecamere e fissati all'interno di un film: era questo il file di cui aveva parlato il Mostro alla vecchia. Il file era come la tomba dell'autovettura che moriva, poteva essere visionato dai vecchi proprietari o da chiunque avesse usato quell'auto, per risvegliare e far rivivere ricordi ed emozioni. Era come se l'essenza stessa dell'automobile fosse stata fissata all'interno di quel supporto.
Dopo la fine della procedura - o dovremmo dire cerimonia - di terminazione, quello che rimaneva nella camera sensibile non era più un organismo compiuto, ma un semplice ammasso inorganico. Questo poteva quindi essere smontato ed i singoli pezzi erano riusati per gli scopi più disparati, spesso venduti di contrabbando da Kowiecz, che aveva parecchie richieste di forniture sottobanco.
Dopo qualche giorno la vecchia ritornò allo stabilimento per la consegna del file. Tutto il suo corpo era coperto da un abito aderente di lattice, giallo. Il roditore la aspettava in una cabrio viola, con decappottabile indaco.

mercoledì 22 settembre 2010

Brian Wilson reimagines George Gershwin


Ho ascoltato questo album con l'ingorda speranza di ritrovare il timbro del genio che avevo imparato ad amare dapprima in Pet Sounds e poi in Smile. Ecco, la mia cupidigia è stata soddisfatta, era come abbeverarsi ad una botte di vini nobilissimi.
Io sono un beatlesiano, direi quasi "duro e puro", ma ho anche profondamente amato i Beach Boys. Con la differenza che mentre nei Fab Four c'erano almeno due extraterrestri, nella band dei fratelli Wilson, il genio incontrollabile di Brian era distante anni luce da tutti gli altri.
La musica di Brian Wilson, la sua volontà di sperimentare forme inconsuete, le distanze che riesce a coprire la sua ispirazione, mi fanno venire in mente la potenza stordente del barocco migliore. Se dovessi trovare un paragone visivo con questi suoni, mi verrebbe in mente ... Roma, la città in cui vivo, con la sua lunga fascinazione di forme barocche.
Sono tanti gli esempi di vecchie glorie della musica pop che hanno voluto ingaggiarsi con i classici: la maggior parte mi ha sempre dato l'impressione di farlo per capriccio, di volersi togliere il classico sfizio, di chi, avendo raggiunto certe vette di popolarità, ritenesse quasi che gli spettasse come tributo di dare certe prove di sè. E gli esiti sono stati quasi sempre deludenti, perchè è difficile aspettarsi che Roger Waters possa cimentarsi con l'Opera con la stessa prorompente sincerità di The Wall.
Per Brian ri-immaginare George Gershwin è stata un'operazione naturale, perchè in lui rimane sempre immutata una caratteristica presente nella sua musica sin dagli anni sessanta: l'aspetto ludico della frase musicale, della interpretazione o re-interpretazione, come in questo caso. Brian, anche quando costruisce edifici musicali complessissimi, dà l'impressione di uno stato d'animo divertito, mai drammaticamente angosciato. E qui l'accostamento a Smile è ovvio: anche di fronte al Gershwin "da surf" ho immaginato come di stare visitando un castello fatto di stanze impreviste piene di gradite sorprese.
Eppure la vita di Brian è stata tutt'altro che facile o fatta di scintillii di allegria: forse perchè troppo geniale ed anticonvenzionale, ha conosciuto il dolore della segregazione, della malattia mentale, dell'ossessione di non riuscire (nella percezione che aveva della sua musica) a non raggiungere i suoi obiettivi. Nei Beach Boys, nell'ultimo periodo, si sentiva isolato rispetto al resto della band.
Era troppo avanti rispetto alle concezioni del suo tempo e quando uscì Pet Sounds (era il mitico 1966) il mondo della musica non dette il giusto rilievo alla grandezza di quell'album. Se Brian fosse stato più cattivo, più spregiudicato ed avesse trovato anche dei compagni di viaggio con un briciolo della sua follia, forse ora non considereremmo Sergent Pepper's come quella grande tappa miliare nella storia della pop music che sicuramente è, ma al suo posto staremmo parlando di un album dei Beach Boys, magari proprio di quello Smile che è uscito più di trent'anni dopo che l'autore ne aveva avuto l'idea iniziale ma che non ebbe seguito soprattutto perchè quei suoni erano troppo "difficili" per poter essere proposti/eseguiti durante un concerto dal vivo. Ecco Brian non riuscì a battere i Beatles sul tempo, e credo che questo gli sia pesato negli anni sessanta (soprattutto con il senno di poi).
Da quando Mister Wilson ha rotto il silenzio dell'isolamento in cui si trovava, con l'uscita di Smile nel 2002, è stato come se il cielo si colorasse di nuovo di bellissimi fuochi d'artificio. Ora che si cimenta con Gershwin e ritroviamo la stessa voglia di divertirsi, siamo tutti più contenti, perchè, diciamo la verità, è bello cullarsi nell'onda di questi suoni gioiosi, delle armonie vocali inimitabili, nello splendore di questa musica ... barocca appunto.

Benritrovato Brian, cento di questi album.