martedì 30 settembre 2008

IL PICCOLO INCENDIARIO

(Libero adattamento da "La Piccola Fiammiferaia" di Hans Christian Andersen)



C'era una volta Stan, un piccolo bambino di trentotto anni che viveva allegramente nel paese detto Das Narrenschiff, così chiamato perchè la gente che lo abitava non era poi tanto normale e le case e i sentieri erano sospesi su una laguna, cioè galleggiavano.

Stan di mestiere faceva il carpentiere ed era quasi sempre immerso nell'acqua lagunare, intento a riparare i pali delle costruzioni oppure ad aggiungerne di nuovi. Era bravo nel suo lavoro, così bravo da essere malpagato. E questo forse era un bene, perchè quando il capomastro lo pagava, dopo avergli contato le banconote davanti agli occhi, ne faceva un mazzetto e gliele stracciava davanti, lasciandole cadere per terra. Stan doveva raccoglierle e poi attaccarle con il nastro adesivo. Era un tipo tollerante il nostro, sempre disposto a sdrammatizzare; e poi il mal di schiena causato dall'umidità – lavorava quasi sempre con il busto immerso nell'acqua – non gli lasciava molto tempo per dedicarsi ad altro.

Stan aveva un personalità abbastanza brillante, cioè la mente era accesa e spesso fantasticava sugli esiti probabili della sua condizione, che in realtà non lasciava presagire nulla di buono. La sua compagnia era molto ricercata dalle donne di Narrenschiff, che lo preferivano ai loro mariti, sessualmente molto attivi per loro, ma intellettualmente deludenti. Le donne sposate, e non, si divertivano a trascorrere le mezz'ore in sua compagnia – a volte anche le ore – e non si pentivano mai per questo. Poi, siccome ovviamente dovevano anche appagare i propri bisogni corporali, quando tornavano a casa dai mariti, avendo già soddisfatto i propri appetiti spirituali, si ponevano con più foga nel soddisfacimento di quelli carnali.

Stan, nonostante il grande richiamo della sua personalità, non riusciva ad avere presa permanente su nessuna delle ragazze che lo interessavano, e questo talvolta ne faceva scemare la presenza di spirito; sicuramente il più delle volte lo intristiva. Deciso a risolvere questo suo problema, si rivolse alla moglie del capomastro, che esercitava l'arte di conoscitrice di sguardi, cioè guardava in faccia le persone e sapeva dire come erano fatte, ossia il loro carattere, e cosa gli sarebbe capitato. Guardando in faccia Stan, la moglie del capomastro non riuscì ad impedirsi di pensare che il bambino era, in verità, non proprio bello, cioè un pò bruttino, ma non voleva, da persona di tatto quale era, dirglielo direttamente. Gli disse che lui aveva sempre la tendenza a stemperare gli avvenimenti brutti, ad annacquare i dolori – e infatti nell'acqua stava -, mentre ogni tanto gli avrebbe fatto bene lasciarsi andare all'ira; fuor di metafora, non riusciva a riscaldare le donne perchè non aveva calore dentro e non poteva uscire fuori quello che dentro non c'era. Stan uscì dalla casa del capomastro e, ruminando su quel giudizio, pensò che non era forse d'accordo e, per sottolineare questa sua risoluzione, prese un grosso sasso e lo lanciò contro la vetrata principale della casa, quella illuminata dal magnifico abat-jour. Ecco, per la prima volta non aveva sdrammatizzato, si era abbandonato alla prima reazione. E siccome la megera gli aveva diagnosticato la mancanza di caldo, tirò dalla tasca un barattolo di pece e con l'accendino ne accese un pezzetto che aveva spalmato su un rametto, facendosi una piccola torcetta. Dopodichè la prese e la lanciò, attraverso la finestra rotta, all'interno della casa del capomastro, che essendo costruita tutta in legno, con le pareti ricoperte di carta fiorata ed i pavimenti di tappeti, bruciò tutta splendidamente in meno di mezz'ora. Stan non vide il capomastro e la moglie correre fuori per mettersi in salvo, comunque non gli importava. Quanto al danneggiamento dell'immobile, calcolò che grosso modo equivaleva a tutte le creste che il capomastro aveva fatto sulle sue paghe. Quindi erano pari. La casa bruciò di un bel falò. I pompieri non arrivarono, perchè in Narrenschiff non c'era una squadra di pompieri, dato che la città era costruita sull'acqua e quindi, in un modo o nell'altro, l'acqua della palude avrebbe spento gli incendi. Il borgomastro giudicava così che il municipio avrebbe risparmiato un sacco di soldi e, con gli aumenti alle tasse, le casse dell'erario si sarebbero rimpinguate di anno in anno. Siccome poi il bilancio delle entrate doveva essere lo stesso ogni anno, il bravo amministratore prelevava il surplus e lo teneva per sè.

Il falò della casa del capomastro era stato davvero bello. Stan pensò che lo spettacolo si poteva ripetere, tanto per non annoiarsi. Una cosa era sicura, la moglie conoscitrice di sguardi aveva preso una grossa cantonata con lui; infatti se era stato capace di far sprigionare all'esterno tutto quel calore, doveva averne altrettanto all'interno. Stan pensò che aveva delle buone speranze con Fiammetta, la donna per cui spasimava. Inoltre si disse che se avesse riflettuto anche solo un pò sul nome di lei, si sarebbe risparmiato la parcella della megera. Ma tant'è! Il prossimo bersaglio decise che doveva essere il borgomastro: c'era una ragione! L'ultimo anno aveva lavorato quasi sempre sotto la sua casa, per una serie di interventi, prima di riparazione, poi di espansione, aggiungendo alla casa originaria tutta una serie di piattaforme e di pali sotto. Insomma espandi oggi, espandi domani, la modesta abitazione dell'austero amministratore era diventata grande quanto un rione. E siccome si trattava del borgomastro, il capomastro lo aveva costretto a lavorare senza sosta per un anno intero. Va bene l'essere pagati poco, ma almeno il tempo libero doveva essere salvaguardato. E invece no, aveva lavorato sedici ore per ogni giorno. Cosa fece? Entrò in un capanno degli attrezzi, collegato con il complesso edilizio del borgomastro, ed inserì nella condotta dell'aria un grosso mantice, con il quale insufflò nella condotta, di legno, del gas incendiario. Poi si allontanò ad una distanza di sicurezza, uscendo dal capanno, e attraverso la porta aperta lanciò la solita torcetta, che con mira perfetta andò ad inserirsi proprio nella condotta di areazione. I fuochi di artificio si sprigionarono nel cielo, con grande spettacolo e paura degli abitanti di Narrenschiff – qualcuno si divertì, anzi, per non smentire il nome della città, parecchi, sotto l'incalzare delle fiamme che piovevano dal cielo, dettero di matto ed incominciarono a correre nudi per le strade, gridando come tori nella festa di San Firmino a Pamplona.

La casa di Fiammetta era su una palafitta in periferia, in un quartiere isolato che non fu toccato dal propagarsi delle fiamme borgomastrali, che avevano attaccato tutte le abitazioni dei vicini arrondissement. No, quella casa era al sicuro e Stan, sempre quella stessa notte, pensò di far visita alla donna dei suoi sogni, per mostrarle il nuovo corso. Voleva farle vedere che non era più solo un brillante conversatore, ma un maschio a tutto tondo, caldo come un panetto appena sfornato. Quando però fu giunto a destinazione, decise che, anzichè chiamarla, rivolgerle parole lievi, insomma tutte quelle finte cerimonie che tanto felici fanno le donne, avrebbe ottenuto un effetto migliore se avesse sprigionato il fuoco che c'era dentro di lui. E si rafforzò in questo proposito quando si accorse, da gridolini intenti ed estatici, che Fiammetta non era sola, ma in compagnia di un uomo, sicuramente un suo familiare pensò Stan, magari un cugino. Così radunò paglia e fieno e sterpaglie in un grosso covone davanti alla casa e gli dette fuoco. Le sprizze zampillavano in aria come impazzite ed alcune – Stan non aveva calcolato bene il vento – caddero sul tetto della casa di Fiammetta, con le conseguenze che si possono facilmente immaginare. A Stan dispiacque che la sua disattenzione avesse causato l'inavvertito incendio della casa di Fiammetta; poi si dispiacque di meno quando vide un uomo fuggire dalla finestra coperto solo delle brache e la ragazza correre nuda per buttarsi in acqua. Stan pensava che lei, dopo questa dimostrazione di ardore, avrebbe finalmente accolto i suoi profferti d'amore. All'indomani, la città si risvegliò come un tizzone fumante, dato che le case si erano comunicate l'incendio le une con le altre, e Stan si rese conto di non avere più un lavoro. Nemmeno la casa aveva più, dato che la sua distava poco da quella del borgomastro. Pensò che non doveva preoccuparsi granchè, tanto poteva sempre andare a lavorare nel borgo vicino come incendiario – se quella professione non c'era ancora, se la sarebbe inventata. Tanto ora era sicuro di sè, avendo scoperto che possedeva l'ardore e di questo un pò avrebbe dovuto ringraziare la conoscitrice di sguardi.

venerdì 26 settembre 2008

LA BANDA DEGLI JUNGHIANI

ERASMO: Signori, basta con la caciara, su, veniamo al tema della riunione ... che è quello di trovare un rimedio alla situazione precaria in cui il nostro Ordine versa, ormai da lungo tempo! (sigh) Il collega segretario ci mostrerà ora alcune cifre, così capiremo tutti che è finito il tempo di scherzare! Dico anche a lei signorina: sembra che quello che stiamo per dire non la interessi, per quanto ha da confabulare con la sua collega accanto!

ORNELLA: No, niente ... è che stavamo dicendo appunto ... che non si può andare più avanti, così! Con questa fuga di pazienti! Pensi che l'altro giorno, il commendator ...

ERASMO: I commenti a dopo. Ora la relazione del collega segretario dell'Ordine! A lei la parola, prego.

RAGIUNATT: Beh ... io avrei preparato una presentazione col PC. Posso farvi vedere delle slides.

ERASMO: Non abbiamo il proiettore, in stanza.

RAGIUNATT: Cioè ... come no? Ce n'era uno bello grosso ... e come si vedeva bene!

ERASMO: Si è rotto e non ci sono i fondi per ripararlo! Ne faccia a meno!

RAGIUNATT: Beh ... ma io non ho stampato niente ...

ERASMO: Non fa nulla. Legga dal suo portatile!

RAGIUNATT: Ah ... veramente ... non l'ho portato ...

ERASMO: E come pensava di fare senza?

RAGIUNATT: Beh ... cioè ... ho portato la pennina USB ...

ERASMO: E quindi?

RAGIUNATT: Cioè ... la inserivo nel computer dell'Ordine ...

ERASMO: Ma se non ce l'abbiamo il computer all'Ordine?

RAGIUNATT: Ah no? Cioè ... mi sembrava di sì, invece. Ma quello che stava in questa stanza, sul banco all'angolo?

ERASMO: Mi hanno riferito che aveva il virus!

ORNELLA: Pure lui?? Non si salva nessuno, è un'epidemia!!

PROCTOR: Una pandemia, mia cara! Lo hanno detto nell'inserto medico del TG. Quest'anno sono cazzi nostri, chè se ti ammali non puoi ricevere i pazienti!

ERASMO: Per favore! Questa è una riunione seria.

PROCTOR: Più serio di così. Proprio di pandemia si tratta!

ORNELLA: Comunque, presidente, il computer non ci sta più, perchè uno dei pazienti della collega lo ha rotto! Per essere precisi!

MARIA-ERPICE: No, la signora Gertrude ... non lo ha rotto ... lo ha preso ad ombrellate! Perchè non voleva accettare l'estrusione del senso di colpa lesbico. E poi, ha detto che non mi pagava più. Povera! ... Beh, anche stronza ... oltre che lesbica!

ERASMO: Collega segretario, vada avanti! Ci faccia la relazione!

RAGIUNATT: Beh ... ma è una parola ... c'erano un sacco di cifre: e chi se le ricorda?

ERASMO: Ci dica il senso generale. Poi, domani distribuirà delle copie ai presenti, agli assenti ... ed anche a quelli che non seguono, perchè parlano con la vicina!

ORNELLA: Presidente, lei è da un pò che fa le battutine! Qui siamo tutti stanchi ...

MARIA-ERPICE: ... e mal pagati! La vicina di casa fa la psicologa in TV ... e guadagna bene! E ogni tanto fa pure le marchette, così arrotonda!!!

ORNELLA: Lo sapevo che si finiva a puttane!

MARIA-ERPICE: Che dici tu, sempre con le frasette in silenzio!!

ORNELLA: Niente!

ERASMO: Segretario!!! Mi faccia il favore, parli!

RAGIUNATT: Beh ... sì. Dunque ... cioè ... vediamo. Insomma, da alcuni mesi questo studio ha pochi pazienti. Anzi ... volevo dire, non solo questo, chè siccome ci lavoro io si potrebbe capire male ... Anche voi non siete messi bene, negli altri studi ... Allora io mi chiedo, perchè?

MARIA-ERPICE: Già! Perchè?

ORNELLA: E diccelo!

MARIA-ERPICE: La fidanzata della Gertrude ha detto che siamo incompetenti! Inadatti a capire i veri problemi!

ERASMO: Per cortesia, ce lo deve dire lui il motivo! Non interrompa sempre, per voglia di protagonismo!

RAGIUNATT: Mah ... io ho fatto delle ipotesi. Si potrebbe pensare che la società sia andata incontro ad un felice rinsavimento ...

MARIA-ERPICE: A guardarti, non può essere vero!

RAGIUNATT: Secondo me, la gente non viene più da noi perchè c'è la crisi. Non sentite: i crac finanziari, il pane costa di più, la quarta settimana ... ? Cioè ... la gente sta male ... ma non si può permettere di andare dall'analista ...

ORNELLA: Certo che se con i pazienti facciamo queste analisi ... si capisce perchè stiamo qui a perdere tempo! Qualche giudizio più profondo??

ERASMO: Qui non si perde tempo! C'è un problema e bisogna cercare di risolverlo! Tutti!

MARIA-ERPICE: Anche perchè alla quarta settimana rischio di non arrivarci io!

PROCTOR: Secondo me sta cambiando il profilo delle patologie mentali. Ne sono convinto! E noi siamo fossilizzati su concetti triti e ritriti!

ORNELLA: Ha parlato il più bravo della classe! Un applauso!

PROCTOR: Guarda che sono serio. Io accedo a tutte le cartelle dei pazienti conservate all'Ordine. Secondo me stiamo prendendo degli abbagli con alcuni pazienti. Ci ostiniamo ad applicare delle categorie superate! Aggiornamento! Questa è la parola magica! Ci dobbiamo aggiornare! Prendiamo per esempio le deviazioni sessuali.

MARIA-ERPICE: In questa stanza??

PROCTOR: La settimana scorsa un paziente mi raccontava di sognare che faceva sesso con un gallina.

MARIA-ERPICE: Arturo!!!

PROCTOR: Lo conosci?

MARIA-ERPICE: Come! E' venuto tre mesi da me. Che stronzo! Ha cambiato analista e non mi ha detto niente!!!

PROCTOR: Ma tu che giudizio avevi formulato? A che punto eri arrivato con lui?

MARIA-ERPICE: Al punto che non mi pagava!

ORNELLA: Si vede che spendeva i soldi con le galline!

MARIA-ERPICE: Stavo arrivando alla conclusione che le sue, diciamo così, fantasie erano legate a tratti di pseudo-fobie da carenza affettiva congenita su cui si innestavano delle carenze fisiologiche di carattere oggettivo. Per la precisione: carenze alimentari.

ORNELLA: Ovvero, che tipo di carenze?

MARIA-ERPICE: Avicole! Comunque detto tra noi era uno sfigato ... ed un coglione! E poi pensava alle galline perchè era ipodotato! Non può essere preso come esempio di ultima frontiera delle devianze psichiche!

PROCTOR: Stiamo sottovalutando il problema!

MARIA-ERPICE: Altrochè! Io, da quando sono a metà stipendio, ho dovuto rinunciare pure allo yogurt ... per la regolarità intestinale!

PROCTOR: Ornella, ti ricordi dell'ipocondriaco con l'asma?

ORNELLA: Quello che, quando mi chiamava, ansimava per telefono?

PROCTOR: Sì, era un paziente complesso, quello. La sua psiche, me lo dicesti tu una volta, mostrava delle striature come una tela impressionista.

ORNELLA: Te l'ho detto prima o dopo l'happy hour?

PROCTOR: Era un paziente veramente interessante! Capite? Ci sono capitati pazienti che avremmo dovuto studiare di più ... potevamo allargare gli orizzonti della scienza della mente!

MARIA-ERPICE: Invece ora stringiamo la cinghia! Ma, così, giusto per curiosità ... quanti pazienti sono rimasti?

RAGIUNATT: Beh ... nell'ultimo mese, hanno marcato visita solo in due ...

ERASMO: Solo???

RAGIUNATT: Non ho i dati a portata di mano, ma forse è così ...

ERASMO: Che significa "forse"? Segretario, QUANTI?

RAGIUNATT: Beh ... cioè, approssimando in eccesso, potrebbero essere uno o due in più ...

MARIA-ERPICE: Siamo nella merda!

ORNELLA: Io ho il mutuo da pagare!

ERASMO: Ho capito! La barca sta affondando.

MARIA-ERPICE: L'ho detto, siamo nella cacca!

PROCTOR: Presidente, qui siamo tutti analisti di valore. Secondo me, la situazione è recuperabile.

ERASMO: Dipende! Segretario, abbiamo arretrati da pagare? L'Ordine ha debiti?

ORNELLA: Sicuramente il debito morale di non buttarci in mezzo alla strada!

MARIA-ERPICE: Allora sì che rimangono solo le marchette! Sai che sedute!?

ORNELLA: Ma perchè la butti sempre in vacca?

MARIA-ERPICE: mi sto preparando al piano B!

ERASMO: Da come vi state comportando, non faccio fatica a pensare che i pazienti se ne siano andati. Segretario, ripeto: abbiamo conti arretrati?

RAGIUNATT: Beh ... cioè ... nella relazione, nelle slides cioè, c'era in fondo una tabella con dei numeri ...

ERASMO: ABBIAMO DEBITI, SI O NO?

RAGIUNATT: Beh ... la faccenda è molto complessa ... cioè ... ci sono diversi aspetti da considerare ... non si può dire su due piedi ...

ERASMO: Ho capito. Non c'è risposta!

RAGIUNATT: Beh ... non è che non c'è risposta ... la risposta c'è ...

ERASMO: Segretario, può tornare a sedersi. La ringrazio. La prossima volta vedremo di evitare gli inconvenienti tecnici.

ORNELLA: Se ci sarà una prossima volta!

ERASMO: Bisogna vedere come è messo l'Ordine finanziariamente. Nell'attesa e sperando che la situazione non sia irrimediabilmente compromessa, forse una soluzione c'è. E significa: cambio di strategia.

MARIA-ERPICE: Certo che non c'è nessuno che parla come mangia!

ERASMO: Bisogna cooperare tutti per la causa comune e per farlo bisogna iniziare a lavorare con spirito nuovo. Bisogna diversificare il portafoglio delle competenze! Ci sono rimasti al massimo quattro pazienti e noi siamo in cinque, senza contare i collaboratori esterni e i membri dell'Ordine non residenti. Dobbiamo fornire ai pazienti un trattamento più completo ... incominciando a farli ruotare tra noi. Una specie di tour della guarigione mentale.

ORNELLA: E così dovrebbe migliorare il trattamento? Cioè ... così migliorano i pazienti?

MARIA-ERPICE: Devo avere ancora le calze a rete dell'ultima orgia. Tornano utili!

ERASMO: Lei, che ha sempre il solito spirito caustico ... qual è la sua specializzazione?

MARIA-ERPICE: Io mi occupo di devianze sub-urbane di carattere conflittuale superiore. La prossima, invece, sarà a carattere inferiore, sia anteriore che posteriore.

ERASMO: Lei, invece?

ORNELLA: Paradigmi della diversità sessuale con innesti di accelerazioni dell'incoscio.

ERASMO: Interessante. Ha mai trovato pazienti classificabili secondo le patologie della sua categoria?

ORNELLA: Tecnicamente, mai! Però una volta ho avuto in cura uno con la rinite allergica.

ERASMO: Lei?

PROCTOR: Io ho un profilo professionale poliedrico, che mi porta a spaziare dalla psicologia cibernetica, ai disturbi della macchine fino alle sofferenze a-specifiche dei celenterati.

ERASMO: Guadagna molto da tutte queste abilità?

PROCTOR: Nella crisi nera anch'io! Con in più un'ex moglie a cui pagare gli alimenti e un'amante: si trattava di una mia paziente, che ha deciso che, non potendo curarsi con sedute settimanali, doveva approfondire le problematiche fisiche, diciamo così, full-time.

ERASMO: Lei, segretario?

RAGIUNATT: Beh ... io ... cioè ... mi sono, come per dire, lasciato ... insomma, sono un generalista, con possibilità evolutive ...

ERASMO: Lasci stare! Ho capito!

MARIA-ERPICE: Allora, come siamo messi? La sfanghiamo?

ERASMO: Io davo ripetizioni di latino, prima di iscrivermi all'Ordine e di diventare presidente.

ORNELLA: Serve anche il latino ai pazienti?

ERASMO: Non serve! Signori, mi dimetto! Lascio la carica! Ognuno per sè!

MARIA-ERPICE: E tutti i discorsetti sulla diversicazione del lavoro?

ERASMO: Ecco, incominciamo con il vederci più tardi a casa sua. Così può sviluppare le nuove abilità di cui parlava ...

(Sipario)

mercoledì 24 settembre 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. IV

Un giorno fui chiamato dal direttore di dipartimento. Ignoravo la ragione della chiamata anche se, oscuramente, era come se me l’aspettassi. Sedetti davanti alla sua scrivania, con un’aria insonnolita anzichè preoccupata come si conveniva, data la situazione; gli impiegati venivano chiamati raramente, ed il fatto che fossi stato convocato proprio io non era sicuramente un buon segno. Il direttore di dipartimento esordì con queste parole: “Caro Cicogna, io e lei, almeno per quanto io possa ricordare, non abbiamo mai avuto il motivo, o meglio, l’occasione per vederci ... e ciò spesso rappresenta una perdita perchè tra gli impiegati ci sono delle persone magnifiche, con le quali è possibile spendere pochi minuti in conversazioni di reciproca utilità ... Però ... il lavoro è il lavoro ... e sia io che lei abbiamo una mansione da svolgere giornalmente, per la quale può essere difficile venire incontro alle questioni, diciamo, più squisitamente personali. Non so se lei intende quello che voglio dire, ma presumo di sì, data la mia confidenza nella sua intelligenza e sensibilità. Nella mia funzione di capo – perdoni l’indelicatezza del termine – una delle mie principali preoccupazioni è ... assicurarmi che gli impiegati, ed in generale tutto il personale di questo dipartimento, si trovino a proprio agio con la struttura e ... l’organizzazione del lavoro. Sicuramente lei mi intende, ma mi faccio un mio dovere di precisarle che spetta a me, come da regolamento, vigilare sulla serenità dei dipendenti ... la serenità come prerequisito per l’armonioso adempimento delle loro mansioni. Questo vale per gli impiegati – quindi per lei – ma anche per me. Veda ... ad essere precisi il regolamento non indica espressamente questo compito, ma esso è così compiutamente definito nel suo corpo di regole che non è possibile non ricavarne, da una minuziosa interpretazione, anche quest’ulteriore prescrizione di buon senso. Una macchina garantisce un funzionamento soddisfacente e sempre rispondente alle sue caratteristiche tecniche se ogni sua parte, anche il più piccolo ingranaggio, viene sempre mantenuta in ordine: solo così l’insieme produrrà un funzionamento efficiente!”

Qui il suo discorso, che da principio aveva assunto un tono eccessivamente confidenziale, si stava facendo minaccioso, quasi a sottolineare il fatto che si stava toccando l’argomento principale del colloquio. Ed io ero sotto esame, non un semplice interlocutore. Poi continuò: “Mi rendo conto che il servizio che la comunità chiede a questo dipartimento possa risultare gravoso. Ma non dobbiamo mai perdere di vista il fine ultimo dei nostri sforzi, che è la sicurezza sanitaria dei cittadini!” e, in questo passaggio, alzò improvvisamente la voce, tanto che io non afferrai se stesse parlando in una specie di trance oppure se fosse arrabbiato nei miei confronti. “E’ questa la considerazione che ci deve guidare nelle nostre azioni quotidiane, sul luogo di lavoro, ed è questa la considerazione che mi deve, e dico deve, indurre a cercare ostinatamente di perseguire, con ogni mezzo – lecito s’intende –, la serena industriosità degli impiegati! Insisto sulla parola serenità, perchè essa è la condizione essenziale per il corretto – e produttivo – svolgimento del lavoro qui dentro.” Sembrava un rimprovero in piena regola. Io lo avevo capito dal susseguirsi dei toni del suo discorso, più che dal senso stesso delle parole con cui mi stava inondando. Anche perchè, dalla finestra alle sue spalle, si aveva una visione privilegiata del balcone con la donna ed io, da qualche minuto, stavo sperando che lei uscisse e trascuravo il discorso del direttore del dipartimento.
“Veda Cicogna, io le sto offrendo il mio umile servizio! Le sto chiedendo di dirmi se c’è qualcosa, qualunque cosa, che la turba in ufficio; se posso usare le mie prerogative per agevolarle il compito, per farla sentire più a suo agio. Non se lo faccia ripetere, si senta piuttosto invitato a chiedermi cosa io posso fare per lei! Perchè se lei è sereno, sarà di conseguenza concentrato sul suo lavoro ...” qui si soffermò un attimo “... e tutti avremo da guadagnarne! Non è necessario che io le sottolinei questo concetto, del tutto scontato!”. Poi si fermò a guardarmi, con gli occhi che mi fissavano al di sopra degli occhiali, baldanzosamente inforcati sopra il suo naso da cavalleria. Stette in quell’atteggiamento per qualche secondo, io pure ero immobile che scrutavo dietro di lui, oltre la finestra, nella speranza dell’affacciarsi della donna. Non uscì. Come un colpo di frusta, mi sentii chiedere: “Vuole aggiungere qualcosa alle mie parole, caro Cicogna?”. Quel ‘caro’, in realtà, concentrava in sè tutti gli insulti del mondo, in tutte le lingue. A quel tono interrogativo, mi riebbi dalla mia contemplazione, ritornai in quella stanza. Risposi: “Scusi?”.

sabato 20 settembre 2008

THE SELF-EFFACING PIANO PLAYER


Questo brano sarebbe, da solo, sufficiente a raccontare la storia e la personalità del pianista jazz che più di tutti ha influenzato il genere. Anzi, forse l'ambito del jazz può risultare anche ristretto per questo musicista che, in maniera tranquilla, ha detto una frase originalissima nel capitolo musicale del piano contemporaneo.
Bill Evans è stato un torrente di musica, un torrente che attraverso un lungo e intricato percorso, trascina le correnti, i vortici nella piana tranquillità del lago. Quegli stessi ondeggiamenti si potevano vedere nei suoi atteggiamenti, nella mancanza di sicurezza,  nella patologica riservatezza che gli rendeva difficili i contatti umani. La musica nasceva dai grovigli della sua mente cristallina, un setaccio attraverso cui era passato lo scibile della musica classica rimescolato in un mood personale, un faticoso punto di approdo. Diceva che non si sentiva dotato di talento, che la sua musica era il risultato, in continua trasformazione, di un'enorme applicazione.
Qui è accompagnato da Larry Bunker alla batteria e Chuck Israel al basso. La canzone, "My Foolish Heart", malinconica, mostra quel sentimento di intimità che si riceve dalle esecuzioni di Evans. E' bellissimo vedere come, tutto ricurvo sulla tastiera, quasi a voler nascondere la testa tra le spalle, disegni una trama semplice, sfiorando leggermente i tasti, con una ricchezza di sfumature tenui, in un effetto di grande suggestione emotiva. Questo brano, ogni volta che lo ascolto, mi dà la sensazione che lui stia suonando solo per me: questa è l'intimacy della musica e dello stile di Bill Evans. E' come se questa musica creasse dal niente la sostanza dei sentimenti fondamentali, l'amore, la malinconia, la delusione, la gioia, il dolore.
Ineguagliabile Bill, ha bruciato la fiamma, cercando di alleviare i tormenti con la droga, ma vestendo sempre gli abiti della modestia e della gentilezza.

In quest'ultimo video del 79, un'anno prima della sua morte, è in compagnia di Marc Johnson al basso e Joe LaBarbera alla batteria: "Midnight Mood"

martedì 16 settembre 2008

EPILOGO. LA DONNA, LA SALVEZZA



DONNA: Perchè mi fissi? Perchè continui a guardarmi così?

ASSASSINO: Il tuo viso! Ti vedo e penso: la morte mi sottrae delle possibilità!

DONNA: Sei un uomo malvagio. Ho ascoltato le parole che dicevi al Re: c'è del vero in esse, ma nessun bene può venire dalla bocca che le pronuncia. Io vedo un uomo senza amore!

ASSASSINO: L'amore: ecco una parola pericolosa come mille mari in tempesta. Vorrei poter rinascere, per compiere esattamente le stesse azioni e dimostrare che gli uomini si ingannano sull'amore. E le donne muoiono d'amore.

DONNA: Cosa intendi?

ASSASSINO: Che quando pensano di averlo conosciuto, si bruciano ancor più rapidamente! Quando non lo conoscono, danno la morte peggio della peste.

DONNA: Io l'ho conosciuto, ma ora morirò perchè il Re così ha deciso: sono colpevole di meretricio. La fame non mi ha salvata, mentre se avessi creduto nell'amore ora non starei qui. L'uomo che mi amava era povero, ma onesto. Io l'ho disprezzato perchè volevo sollevarmi dalla mia condizione che era bassa, e così mi sono perduta. Non sopportavo i tormenti e le sofferenze della miseria, desideravo quello che non è permesso alle donne della mia condizione: essere felici. Se il marito è povero, la felicità è un lusso non consentito alla donna e le sue stagioni saranno rigide come l'inverno.

ASSASSINO: Ecco, perchè penso che questi ceppi che mi bloccano gli arti, mi sottraggono delle possibilità! L'arte dell'uccisione è compassionevole con gli infelici.

DONNA: Non è dalle tue mani che può giungere la salvezza ad alleviare le mie pene. Tutt'al più risparmieresti la fatica al boia.

ASSASSINO: Qui ti sbagli! Il boia ti darà la Morte perchè gli è stato comandato, io ti darei la Morte, perchè il mio istinto ti ha scelta, ti darei tutto senza chiederti nulla in cambio, perchè questo dite voialtri fanatici dell'amore: è un dare senza nulla chiedere in cambio.

DONNA: Tu non sai nulla dell'amore. Se anche avessi abbracciato tutte le tue vittime, prima di ucciderle, per ascoltare i battiti del loro cuore, questo non avrebbe fatto di te un uomo salvo, se non avessi avuto una persona da amare!

ASSASSINO: Eppure io mi innamoro così facilmente! Ogni volta che ho ucciso è perchè amavo la mia vittima.

DONNA: Che cosa turpe, allora! Perchè hai amato allo stesso modo uomini, donne, vecchi e bambini!

ASSASSINO: Ho amato quanto di più bello spirava nei loro corpi: la Vita! Quando si ama qualcosa, la si desidera, la si vuole, ci si vuole impadronire di quella cosa, non c'è amore senza possesso, non c'è amore se la persona amata non sta accanto a te. Quell'affezione verso un essere lontano, che si chiama amore, è solo una mancanza di amore, è solo un rinunciare colpevolmente alle proprie possibilità, ed anzi un inganno perpetrato sui propri sensi e sull'anima. Una prigione accettata consapevolmente. Uno scandalo! Io ti vedo davanti a me, fragile, bisognosa di protezione, bella per tutto questo dolore, e non riesco a fare l'unica azione che vorrei: prendermi la tua vita, per custodirla dentro di me, come in un forziere, renderti felice, finalmente sollevata dalla tua condizione. Ecco l'ingiustizia che si compie a danno tuo e mio. Non hai più niente da perdere ed io potrei darti quella sicurezza che non hai mai avuto.

DONNA: Se anche mi uccidi, saresti solo l'ultima di tutte le disgrazie che mi sono capitate!

ASSASSINO: No, sarei invece la prima delle tue fortune: sarei la tua salvezza! Cambierei il tuo destino, che non ti è mai veramente appartenuto e che il re ha deciso di spezzare come un ramoscello secco. Solo apparentemente ti darei la morte, mentre invece ti darei la vita in un estremo gesto di Libertà. Amare non significa forse cambiare la vita della persona amata? Mi accusi di non conoscere l'amore, io penso che se mi guardo attorno, vedo che forse nessuno lo ha conosciuto davvero!

DONNA: Amare significa anche temere per le sofferenza che patisce la persona amata!

ASSASSINO: E infatti io temo per quello che ti sarà fatto, ed anzi soffrirò terribilmente quando il boia si accanirà con le mani sul tuo collo per spezzarlo.

DONNA: Tu non hai mai saputo cosa significhi soffrire per la persona amata! Siamo rinchiusi in questa cella come due bestie, non può nascere niente di buono in questo abisso.

ASSASSINO: Se solo potessi, io fisserei il tuo volto in un'espressione di eterna felicità, come argilla ne cambierei la forma in un sorriso immobile, per rendere giustizia ai torti che hai subito. Il torto più grave sarà che tu morirai con gli occhi carichi di paura e dolore, perchè la tua vita ti sarà stata rubata, tra atroci tormenti. Se tu mi aiuti, io posso mettere fine a tutto questo ... ed entrambi conosceremo la salvezza.

DONNA: Cosa dovrei fare?

ASSASSINO: Contro le catene ed i ceppi non puoi nulla, ma puoi avvicinarti a me.

DONNA: Io ... ho paura di te!

ASSASSINO: Di cosa hai veramente paura? Prova a pensare a cosa ti attende. Prova a pensare al morso della corda sulla pelle liscia del tuo corpo, quella pelle che ha conosciuto finora solo l'altra pelle delle carezze nel buio dell'alcova. E mentre la corda si stringerà ed i piedi saranno tirati in basso dalle ruvide mani sacrileghe del boia, tu non sentirai più nemmeno il dolore, ma la costrizione del tuo fiato che s'attenua e il gonfiore degli occhi che vorrebbero uscire dalle orbite, mentre la luce della vista ti abbandona. Ti spegnerai come una candela. Peccato perchè c'è ancora cera da ardere. E quando non ci sarai più, il tuo volto gonfio e opaco sarà fermo sull'ultima deforme espressione di orrore. E la gente accorsa a guardare, accoglierà la fine dell'esecuzione con un gesto di approvazione e sollievo.

DONNA: Liberami se puoi da tutto questo. Forse anche per te ci può essere salvezza.

ASSASSINO: Con un gesto d'amore, appunto. Ma di amore vero, non una pallida imitazione. L' amore vero vuole la Vita.

DONNA: E sia! Ma sappi che se acconsento a seguirti nel tuo folle consiglio è perchè io ho già perso da un pezzo la mia libertà e qualunque cosa mi succeda ora, non cambierà la mia storia. La salvezza forse verrà, forse no: il tempo per me si era già fermato quando ho cessato di essere bambina. Da allora non ho più deciso io per me. Farò come dici, dunque. E che Dio mi perdoni!

ASSASSINO: Dio non c'entra nulla in tutto questo, altrimenti ti avrebbe evitato ogni infelicità. Lui ti ha condannata, io invece ti sto offrendo la salvezza.

DONNA: E sia! Prendi gli avanzi del poco cibo ancora rimasto sulla tavola. Ma è un pasto veramente misero.

ASSASSINO: Ti ho scelta io! Lascia a me di giudicare cosa prendo.

(L'uomo fa uno sforzo per chinarsi sulla donna che si è riversata supina accanto a lui. Gli occhi di lei sono fissi in alto in un'espressione incolore. Egli si avvicina al suo collo, lo bacia teneramente e poi, come continuando il gesto appassionato del bacio, lo squarcia con un morso violento: il sangue esce a fiotti e sgorga dal collo sulla bocca dell'uomo che rimane voluttuosamente attaccato con i denti a quel collo violato. La donna giace in un'espressione del viso finalmente distesa. Sipario).

giovedì 11 settembre 2008

DIALOGO TRA UN RE, UN ASSASSINO E LA MORTE


RE: Infine, alzati in piedi e vieni avanti, uomo, per ricevere il giusto giudizio!

ASSASSINO: Re, non ho ancora capito di cosa mi si accusa.

RE: Ti prendi gioco di questo santo tribunale, miserabile, e del tuo Re?

ASSASSINO: Re, ho detto che non capivo di cosa mi si accusa. Sono sincero.

RE: Imputato, io sono il tuo Re. Dunque sono la persona più giusta per giudicarti.

ASSASSINO: Sono d'accordo con te, re ... che sei il mio re!

RE: Osi forse mettere in dubbio la mia prerogativa di giustizia?

ASSASSINO: Non penso questo. Solo, non credo che la giustizia alberghi in te!

RE: Quello che dici si aggiunge alla tua colpa, che è già grande!

ASSASSINO: Attendo, dunque, di conoscerla, questa colpa.

RE: Eccoti servito. Sei colpevole di aver commesso molti ed ingiustificati omicidi di sventurati esseri innocenti, che hanno incrociato il tuo cammino. Tu hai ucciso per pazzia ... per la tua pazzia!

ASSASSINO: Ecco, se posso permettermi di contraddirti ... essi non mi hanno incrociato: sono io che li ho scelti.

RE: Vuoi dire che c'era un disegno nei tuoi misfatti?

ASSASSINO: No, nessun disegno, re. Di volta in volta, ho deciso io chi uccidere.

RE: Come hai deciso?

ASSASSINO: Re, la mia memoria non è più salda come in gioventù, non pochi sono stati da me beneficiati: rischiamo di fare aspettare oltre misura il boia tuo fratello.

RE: Nella mia magnanimità evito di giudicarti per quest'ultima offesa. La morte che si aggiunge alla morte dà come somma sempre la morte.

ASSASSINO: Ma re, io volevo dire che anche tu ne hai fatti fuori tanti, sicuramente molti di più di me, che modestamente ti seguo, ma molto da lontano.

RE: Io dò la morte, perchè questo è nelle mie funzioni!

ASSASSINO: Certo! E' nelle tue funzioni l'affamare i tuoi sudditi con una moltitudine di tasse. Mandare in guerra i primogeniti, e spesso non solo quelli – beh ... ultimamente non sei stato troppo fortunato nelle tue campagne! Arrostire vivi gli eretici ... ed anche qualche ex ministro. Condannare alla morte per fame un paio di mogli e sterminare ben bene le loro famiglie. Così, giusto per non avere il fastidio di parenti assetati di vendetta, che tramano contro il re. Forse è colpa della fortuna che non arride alle tue alte intenzioni, ma durante tutti questi anni di regno il tuo popolo non se l'è cavata molto bene.

RE: Per quello che dici, potrei farti cavare la lingua, bruciare gli occhi e i capelli, strappare le braccia e le gambe da due cocchi di cavalli. Ma sarò clemente almeno in questo: lascerò che una sola morte ti venga data, anche se ne meriteresti mille, per quello che hai fatto.

ASSASSINO: Re, se mi facessi fare tutto quello che hai detto, non saresti diverso da me. E allora anche tu ti dovresti fare giudicare da un re più grande e potente di te. Del resto non nascondo che alcune delle cose che mi faresti fare, io le ho fatte veramente.

RE: Di cosa ti vanti, miserabile! Neghi tu di aver sterminato una famiglia, dopo avere ricevuto rifugio in una notte tempestosa?

ASSASSINO: No, re, non nego. Però li ho uccisi mentre dormivano!

RE: Neghi tu di aver prima violentato una monaca e poi di averle strappato il fegato?

ASSASSINO: Quella donna mi offendeva, mentre la prendevo continuava a guardare verso l'alto ed a vociare le sue lagne. Ecco: non aveva fegato! Qualunque cosa le abbia strappato, dopo averla aperta in due, non era il fegato.

RE: Neghi, tu, mostro, di aver azzoppato un vecchio contadino e di averlo abbandonato nei campi, lasciandolo prima morire di fame e poi in pasto ai corvi?

ASSASSINO: Non sapevo che i corvi l'avessero mangiato! Beh, re, non starai ad elencarmi tutte le cose che ho fatto? Ti ripeto che non è carino fare aspettare il boia tuo fratello.

RE: Perchè hai ucciso?

ASSASSINO: Potrei farti la stessa domanda. Io, per parte mia, rispondo: il Caso guidava le mie scelte. Quella gente comunque sarebbe morta ed io mettevo in pratica l'eccelsa arte dell'uccidere.

RE: Tu sei pazzo!

ASSASSINO: Re io uccidevo perchè mi piaceva uccidere, ma ne ho fatti fuori molti di meno di te. Se nel tuo regno ce ne fossero cento di artisti dell'uccisione come me, il tuo sarebbe un regno felice e pacificato. Qualche ammazzamento violento bisogna pure metterlo in conto!

RE: Non ti rendi conto della tua empietà! Noi uccidiamo per punire la colpevolezza dei malvagi.

ASSASSINO: Re, se togli tutto il grano al tuo popolo, esso non sopravviverà, sarà condannato a morte!

RE: La legge stabilisce cosa mi è dovuto!

ASSASSINO: La legge è fatta da te! Se muovi le tue armate contro gli altri re che ti circondano, di quali colpe li punisci? Forse del fatto che non ti hanno ceduto spontaneamente le loro corone?

RE: Essi hanno minacciato alla nostra sovranità ... ed alla sicurezza del nostro popolo!

ASSASSINO: E' un popolo ben misero il tuo, se è perseguitato all'esterno dagli eserciti dei tuoi nemici ed all'interno dalle truppe di polizia.

RE: Il mio popolo ha i suoi rappresentanti nel parlamento, liberamente eletti!

ASSASSINO: Il tuo popolo ha avuto la libertà di eleggere sempre gli stessi rappresentanti per tutti i trent'anni del tuo regno. Questi rappresentanti erano o soldati, o stallieri, o preti, o famigli del tuo castello. Per essere rappresentanti del popolo, erano sempre d'accordo con le tue decisioni.

RE: La tua perfidia ti fa parlare!

ASSASSINO: Re, non dico niente di nuovo! Beh ... alcuni di questi rappresentanti li ho tagliuzzati ben bene.

RE: Ancora ti domando: perchè hai tu ucciso?

ASSASSINO: Re, hai mai sentito parlare del Caso? E' il volto più vero della Morte. Se non conosci il Caso è comprensibile, dato che tu sei un grande pianificatore.

RE: La provvidenza divina guida le mie azioni, io eseguo la volontà di Colui che veglia su di me e sul mio popolo!

ASSASSINO: Eppure io pensavo che tu fossi un uomo libero!

RE: Il mio destino è legato alle mie responsabilità, la mia libertà alla volontà di seguire il Bene.

ASSASSINO: Re, se vuoi dire che io sto dalla parte del male, allora, anche se non ho ben compreso il senso di tutte le tue parole, forse hai ragione. Perchè se stessi dalla tua parte, quella del bene, come la chiami, ora non mi manderesti a morte. Io, che pure non ho la tua investitura e ti sono inferiore, ho sempre fatto come più mi piaceva, uccidevo perchè così volevo, ed uccidevo chi sceglievo. Dunque io mi ritengo un uomo libero. Tu, che dici di essere assoggettato alle tue responsabilità, hai fatto le leggi, ma solo per gli altri, perchè il tuo stato ti poneva al di sopra di quelle. Tu hai agito come volevi. Pertanto anche tu sei un uomo libero. Allora sono tentato di pensare che la differenza fra noi è molto sottile: entrambi siamo liberi, perchè entrambi decidiamo di dare la morte, e, così facendo, obbediamo al richiamo della nostra vera natura. Ancora una volta dico che non capisco di cosa mi si accusa. Forse di obbedire alle Leggi Naturali?

RE: La mia alta virtù mi spinge a continuare a sopportare il tuo sopruso, con lo scopo di persuaderti che devi morire, perchè la tua efferatezza ti ha guadagnato questa fine. Io non sono come te: io devo mantenere l'ordine ed assicurare il progresso al mio regno.

ASSASSINO: Mantenere l'ordine significa fare in modo che i tuoi sudditi si comportino come tu desideri.

RE: L'ordine è scritto nella legge divina.

ASSASSINO: Vuoi dire che tu riesci a sentirla perchè stai più in alto, mentre i tuoi sudditi, che stanno in basso, hanno bisogno di farsela ripetere da te? Dunque è un fatto di altezza? Quindi se essi riuscissero a raggiungere la tua condizione, tu non saresti più necessario? Questo vuoi dire?

RE: Io sono quello che sono per emanazione divina!

ASSASSINO: Re, tu sei quello che sei, perchè i tuoi antenati erano più bravi dei loro nemici a maneggiare la spada, e i tuoi avi erano già abbastanza ricchi da assoldare eserciti di mercenari.

RE: Se io non ci fossi, queste terre sprofonderebbero nell'orribile disordine!

ASSASSINO: Ma non ci sarebbe la divina provvidenza ad assicurare che tutte le cose vadano per il meglio?

RE: La Divina Provvidenza ha bisogno dei Re! Senza il Re si ha il dominio del caos.

ASSASSINO: Chiamalo pure Caso! Qui entro in gioco io.

RE: Tu sei un miserabile che uccide senza nessuno scopo: per questo meriti la giusta condanna a morte!

ASSASSINO: Re, qui ti sbagli: io ho sempre ucciso per il mio scopo, che era poi il mio piacere. Quel piacere che non provavo quando ero un soldato, tanta è la facilità di morte nelle battaglie. L'arte dell'uccisione non dimora tra gli eserciti: essa è il cambiare il corso delle vite che si scelgono, senza procurare inutili tormenti.

RE: Vorresti forse essere elogiato per gli sgozzamenti di cui ti sei macchiato?

ASSASSINO: Re, lascia che ti spieghi questo: quando io sceglievo chi uccidere, poi uccidevo rapidamente, senza inutili ed atroci tormenti.

RE: E le carni strappate? E gli arti tagliati? E i corpi aperti e svuotati?

ASSASSINO: Beh ... re, stai elencando le pratiche più piacevoli della mia arte.

RE: Il tuo disprezzo della vita è rivoltante! Mi fai orrore e ribrezzo!

ASSASSINO: Re, se si considerano le mie azioni con animo sgombro da pregiudizio, io mi sono comportato come un incidente di natura. Gli uomini, anche nel più felice dei regni, continuerebbero a morire per le malattie, per le più impensate casualità, una caduta da cavallo, un sasso precipitato dal cielo, un fulmine che incenerisce l'abero sotto il quale ci si ripara, una forte commozione, qualunque causa porti le loro fragili esistenze ad essere interrotte nei tempi e nei modi più diversi. E' la legge del Caso e tu potresti ancora chiamarla la legge di Dio, usando il linguaggio che ti è più proprio. Ma due re che si combattono in una guerra interminabile, per espandere di pochi acri i loro regni, che spingono i loro soldati in ammassi sanguinolenti, loro sì vanno contro le leggi della Natura, perchè sanno che i loro uomini moriranno e non li fermano, non cessano le guerre. La Natura lascia che poche vite cessino, perchè tutta la Vita continui.

RE: I tuoi pensieri sono perversi, come le tue azioni: la morte è un esito inevitabile per te.

ASSASSINO: Re, la morte è un esito inevitabile con te. Lo dico, perchè sto per morire e non sarò il solo, nè lo sono stato.

RE: Noi facciamo la guerra per difendere l'onore Nostro, che è poi anche quello del nostro popolo.

ASSASSINO: Sono sicuro che il re tuo nemico dice le stesse parole ai suoi.

RE: Ma la ragione è di uno solo, ed il torto sta da una sola parte.

ASSASSINO: La ragione risiede là dove la forza eccede. L'esser sconfitti è il più grave dei torti.

RE: Dio concede la forza e la vittoria, perchè Lui solo conosce dove alberga la ragione.

ASSASSINO: E gli uomini si aiutano, cioè i re si aiutano, accumulando ricchezze con le tasse per ingrossare le fila dei loro eserciti. E quando le tasse che ci sono non bastano, se ne creano di nuove. La vittoria finalmente arride al re il cui popolo sarà stato più in grado di sopportare i morsi della fame. Ma un popolo lasciato all'inedia è come un malato che sta soccombendo alla morte.

RE: Che tu sia maledetto! Che la tua anima dannata sprofondi nel buio della notte!

ASSASSINO: Re, io sono maledetto perchè tu mi stai maledicendo. Il tuo popolo ha altro a cui pensare. Quanto al buio della notte, io so solo che ho vissuto da uomo libero, ho agito secondo il mio piacere e questo è il massimo per un uomo. Ed anche la mia morte sarà un incidente del Caso, perchè se i tuoi sbirri non mi avessero agguantato, avrei continuato a vivere ed invecchiare indisturbato, come è successo in tutti questi anni. E siccome sono libero, ti voglio dire questo: tu agisci costretto dal tuo ruolo e procuri sofferenza ai tuoi sudditi ed ai tuoi nemici. Questo ti fa meno libero di me, perchè io seguo il Caso, che comunque non conosco prima, tu segui la tua tradizione, il tuo retaggio. Sei come una belva in gabbia, ma nella gabbia ci sono anche i tuoi sudditi che tu stermini giorno dopo giorno. Forse alla tua morte, che sarà sicuramente più solenne della mia, essi non ti malediranno, ma, credimi, nessuno piangerà con lacrime sincere sulla tua tomba. E alla fine il buio della tomba ricoprirà anche te. Ed anche in questo siamo uguali. Ora vado a trovare il boia tuo fratello.



(L'uomo viene condotto via.

Il re rimane sul trono, pensoso.



Il re rimase sul trono, pensoso



Sipario)



lunedì 8 settembre 2008

MARSCH DER PRIESTER

Il canto si tace e la musica si svolge solenne e delicata, mentre in scena entrano Sarastro e i sacerdoti. Devono riunirsi in consiglio per decidere del destino di Tamino, al quale hanno riservato una serie di prove, superate le quali egli potrà accedere al regno della luce. Ed allora io cerco di immaginarmi, sotto la guida carezzevole di questo intermezzo sinfonico, come è fatto questo regno. Certo, una lunga consuetudine di letture (soprattutto scolastiche), di immagini (soprattutto cinematografiche), ce lo fanno apparire come un luogo di serena bellezza naturalistica. Mentre il motivo scorre, io, a volo d'uccello, sorvolo un paesaggio fatto di colline dolci, coperte di terrazze di vigneti, uomini ed animali e il tutto si presenta molto riposante alla vista, senza drammatici cambiamenti di luce, colore o forme del suolo. Sembra che i luoghi siano fatti per non recare offesa ai corpi ed ai pensieri. Forse ci sono anche canti, come di solito succede in queste scene bucoliche. Ma questo regno della luce potrebbe essere fatto anche diversamente: una città ordinata, con geometrie rassicuranti e spazi dove le azioni umane sono completate dall'ingegneria delle macchine e tutto sembra svolgersi secondo un superiore disegno in cui l'uomo non è più colpevole, ma il destinatario innocente di tanta armonia. In entrambi i quadri gli esseri umani possono realizzare i propri desideri che sono sempre puri e giusti, e non sono condannati all'infelicità ed alla solitudine. Certo prima occorre affrontare il cammino di iniziazione, per elevarsi dalla propria condizione ed essere degni di essere ammessi a far parte della società che abita quel regno. Poi, per coloro che ci riescono, con l'ausilio di Iside ed Osiride, c'è finalmente la condizione della felicità. Ed allora io chiedo, ad Iside, a Osiride, a qualunque essere soprannaturale che possa rispondere, a quali prove mi devo ancora sottoporre, e quanto dolore e sofferenza devo conoscere (ammesso che ne abbia conosciuto in passato), oltre quali distese di solitudine devo lanciare il mio cuore, quanta tristezza devo conoscere, quante colpe devo espiare anche non mie, quanti tormenti mi devono lacerare, quanta strada devo percorrere, quanto ancora mi devo migliorare, perchè un giorno possa far parte di quel gruppo di eletti. Là ci troverei ad accogliermi Papageno, che nonostante fosse molto imperfetto, un pò vigliacco, sicuramente dedito ai piaceri della carne più che dello spirito, ma anche lui inizialmente solo, ce l'ha fatta. La musica finisce, ora subentrano le voci, il paesaggio che scorre fuori del finestrino del treno si è fatto più buio.

venerdì 5 settembre 2008

Large Hadron Rap

E' una delle cose più meravigliose che abbia mai visto!!!!
Questi scienziati sono grandi e se anche dovessimo scomparire in un buco nero, per colpa dell'esperimento del 10 settembre al CERN, meglio farlo a tempo di RAP!

giovedì 4 settembre 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. III

Di solito il numero delle pratiche che venivano sistemate sulla scrivania di ogni impiegato, durante la mattina, era grosso modo corrispondente alla divisione del tempo lavorativo per un tempo medio per pratica. Ci poteva essere una pratica in più o in meno, ma questo non era determinante ai fini della pianificazione del lavoro, che consisteva nell’assegnare una durata ad ogni pratica. Questa stima veniva confermata oppure aggiustata dopo un breve scorrimento iniziale delle pratiche: di solito veniva aggiustata perchè ci si poteva imbattere in qualche pratica “pesante”. Le pratiche venivano classificate dagli impiegati in “leggere”, o normali, e “pesanti”, ovvero con eccezioni, per le quali occorreva più tempo. La formulazione di un piano di lavoro aveva lo scopo fondamentale di fare in modo che lo smaltimento delle pratiche accatastate sulla scrivania avvenisse con regolarità e si terminasse di esaminare l’ultima pratica pochi istanti prima dello scoccare della campanella che segnalava l’orario di uscita. Quello che bisognava assolutamente evitare era dare un’impressione di inattività agli uscieri di corridoio, ad uno sguardo d’insieme di un osservatore qualunque doveva sembrare che tutto procedesse regolarmente, senza affanni, come in un meccanismo ben calibrato. Quando una pratica pesante si fosse rivelata più insidiosa del previsto, era prassi comune, una volta terminata, di vistare la successiva senza leggerla tutta o addirittura passando direttamente alla fine per la firma. Questa procedura veloce tuttavia andava messa in atto con circospezione. Un ritardo era nell’ordine delle cose prevedibili con le pratiche pesanti, perchè le eccezioni andavano sottoposte al collega che se ne occupava, il quale le esaminava e poi dava il lasciapassare (in realtà avrebbe anche potuto bloccare la pratica con una sigla di non conformità, ma questa eventualità era del tutto remota e, a memoria mia, ma anche di altri colleghi più anziani, che svolgevano la mia stessa mansione, non si era mai verificata). Questa deviazione dal normale processo causava degli accumuli di tempo rispetto alle pratiche normali, dovuti a passaggi burocratici: questi accumuli venivano stimati nel piano iniziale ma poteva accadere che alla fine ci si trovasse con un ritardo maggiore rispetto al pianificato. Quel surplus di ritardo andava recuperato in qualche modo, non era pensabile di presentarsi al direttore di dipartimento adducendo scuse, o “pretesti”, come lui li chiamava, per trasferire al giorno seguente la parte che sarebbe rimasta inevasa del lavoro del giorno corrente. Si trattava di una eventualità prevista dal regolamento ma che in pratica non accadeva mai, soprattutto con questo direttore di dipartimento. Quello che succedeva era che, se non si stimava di poter smaltire tutte le pratiche restanti fino a fine giornata, in particolare perchè quel giorno c’era stato un grumo sfortunato di pratiche pesanti sulla propria scrivania, allora si chiedeva ai colleghi di ufficio, a volte anche a quelli dell’intero corridoio, di scambiare alcune delle proprie pratiche pesanti con altrettante pratiche leggere, alle quali si poteva applicare l’iter abbreviato. La richiesta di scambio avveniva furtivamente, per canali sotterranei per così dire, senza insospettire gli uscieri di corridoio o, peggio, il direttore di dipartimento, anche se era opinione comune che tutti fossero a conoscenza di questa modo di agire, ma almeno la forma andava salvaguardata. Alla richiesta di scambio si accompagnava il pagamento di una somma di denaro calcolata sulla base del numero e del tipo di eccezioni contenute nella pratica che si desiderava scambiare: c’era un vero e proprio tariffario al riguardo.

Negli ultimi tempi mi capitava sovente di arrancare con il lavoro di revisione delle pratiche, per cui riuscivo con molto affanno a smaltire il carico quotidiano; inoltre le frequenti richieste di aiuto ai colleghi avevano attirato nei miei confronti la loro diffidenza: siccome in passato la mia disinvolta precisione nello svolgere la mia mansione mi aveva guadagnato la loro invidia, ora tutti, non senza una punta di malcelato compiacimento, si domandavano il perchè di quel decadimento delle mie prestazioni lavorative. Anch’io me lo domandavo, ma univo a questa diverse altre domande e l’effetto di tutto questo lavorio di pensiero non necessario era che non riuscivo più ad avere l’abituale fluidità nell’esercizio delle mie mansioni. E questo accadeva perchè sentivo di continuo il bisogno di fermarmi: laddove prima il meccanismo scorreva senza inceppi, ora era soggetto a interruzioni tanto improvvise quanto non necessarie (o meglio non necessarie per il mio lavoro, ma necessarie ad un mio mutato modo di sentire). Scorrevo le righe della pratica che avevo sottomano quando, ad un tratto, il mio sguardo finiva per essere attirato da un particolare al di fuori della finestra, accanto alla mia scrivania. A volte guardavo semplicemente fuori, senza fissarmi su nulla. Oppure studiavo i dettagli di una scena che si svolgeva all’esterno, i personaggi che vi partecipavano, poteva essere una conversazione animata , della quale peraltro non mi arrivavano le voci, ma solo i movimenti dovuti al gesticolare di chi vi partecipava, od anche il semplice passare degli autoveicoli. Sembrava che cogliessi in ogni piccolo evento il pretesto a fermarmi. Questa mia nuova facilità alla distrazione si rifletteva nel ritmo che tenevo nello sbrigare le pratiche. Anche nel mio atteggiamento esteriore,  alla passata calma e padronanza, era subentrato un alternarsi di momenti di concentrazione, sempre più di rado indirizzata verso il lavoro, e di affanno per raggiungere l’obiettivo quotidiano.

Nell’edificio che fronteggiava l’ufficio sanitario c’era una balcone, abbastanza diroccato, a dire il vero. L’intonaco era screpolato ed annerito dai fumi della città e l’angolo era fatto perchè lo sguardo vi scivolasse sopra senza soffermarsi. Eppure quando si affacciava una donna, sempre la stessa, ora per stendere il bucato, con gesti lenti come in un rito, ora per innaffiare graziosamente un vaso di gerani, non potevo trattenermi dal sollevare gli occhi ad ammirare la scena. Ed era davvero un bel guardare, perchè la donna, bruna, di mezza età, fianchi agili e seno rotondo, era decisamente piacente, anzi bella. Indossava sempre camicie strette sulla vita ed aperte in corrispondenza del petto, e questa sua prorompenza fisica mi portava alla mente l’immagine di un ricco cono gelato con la cialda che a malapena conteneva le palle strabordanti di gusti assortiti. Potevo stare lì ad ammirarla anche svariati minuti, rischiando di incorrere nelle occhiate di controllo degli uscieri di corridoio, i quali aggiungevano anche un colpo di tosse per sottolineare la loro presenza sanzionatrice. I miei intenti bellicosi verso la catasta delle pratiche venivano infiacchiti da quelle visite sul balcone, a volte così frequenti da non sembrare casuali, anche se in realtà lo erano perchè ella non poteva sapere dei miei occhi che la seguivano voluttuosamente.

Mi rendevo conto di questa mia difficoltà nel lavoro, ma ero anche mentalmente disinteressato a capire dove fosse il problema. E poi anche fuori dall’ufficio c’era qualcosa che non funzionava. A passi regolari mi dirigevo verso casa, dopo l’orario d’uscita, ed era come se fossi sospeso su una corda da equilibrista, tesa tra l’ufficio e la mia abitazione, anzi tra quella finestra, attraverso la quale evadevo, e l’abitazione. Non esisteva altro intorno.

mercoledì 3 settembre 2008

LETTERA A DIO

Nel mio blog non poteva non trovare spazio questa missiva immaginaria pensata da Michael Moore. Non perchè io adori ed approvi incondizionatamente tutto quello che ha fatto e fa quest'uomo. O meglio, non solo per questo. Soprattutto per tirare una linea e dire da che parte sto politicamente. Detto questo, il blog è aperto al confronto tra tutti i punti di vista.

Ed ora prima di dargli la parola, lasciatemi dire una cosa: MICHAEL SEI GRANDE !!!


"Caro Dio, l'altra notte, la congregazione del Reverendo James Dobson ha chiesto ai fedeli di pregare per una tempesta che mandasse all'aria il discorso di Obama nello stadio di Denver per l'accettazione della nomina (a primo candidato nero alla Presidenza degli Usa). Vedo che Tu hai risposto alle suppliche del Reverendo Dobson, anche se la tempesta che hai mandato sulla terra non è caduta su Denver ma sulla strada per New Orleans! In realtà, hai programmato che colpisse la Louisiana nel momento esatto in cui George W. Bush avrebbe pronunciato il suo discorso alla Convention repubblicana. 

Ora, Padre celeste, noi tutti sappiamo che hai un gran senso dell'humor e un perfetto tempismo. Mandare un uragano al terzo anniversario del disastro del Katrina e proprio all'inizio della Convention repubblicana è stato un colpo di divina ironia. Io non incolpo Te, so che sei già arrabbiato con i repubblicani perché hanno provato a incolparti definendo il Katrina «frutto della volontà di Dio», quando la verità è che quell'uragano causò pochi dei feriti di New Orleans, mentre migliaia di persone sono morte per errori e negligenze uomane, non certo per colpa Tua. Molti di noi cercarono di soccorrere le vittime del Katrina, mentre Bush mangiava dolci con McCain e si rigirava le dita. Io chiusi il mio ufficio di New York e mandai in soccorso il mio intero staff a New Orleans. Chiesi ai visitatori del mio sito di contribuire alle strategie d'aiuto che avevo organizzato e arrivai a mandare a New Orleans due milioni di dollari in donazioni, cibo, acqua e approvvigionamenti (raccolti da migliaia di fan) mentre i camion frigoriferi della Fema di Bush tre settimane dopo stavano ancora girando per il Maine. Ma la trascorsa notte di giovedì il Washington Post ha riportato che i repubblicani hanno cominciato a programmare l'eventuale posticipazione della convention. L' Associated Press ha riferito che a New Orleans non si è corsi ai ripari per questa tempesta, e che i lavori di ristrutturazione della diga non sono adeguati. In altre parole, come avrebbe detto il grande Ronald Reagan, «Non ci dobbiamo ricadere!» E l'ultima cosa di cui John McCain e i repubblicani avevano bisogno era di avere un doppio schermo in Tv per tutta l'America: da una parte ci sono Bush e McCain che festaggiano a St. Paul, e dall'altra brilla in diretta l'immagine dell'amministrazione repubblicana che ancora una volta si avvita su se stessa mentre New Orleans annega. Tu hai sbigottito Gesù, Maria e Giuseppe, e meno di pochi milioni dei tuoi seguaci si inchinano davanti a te. Ma ora appare chiaro che tu non ti divertivi affatto con Bush e compagnia. Appare chiaro che l'uragano Gustav si sta dirigendo veramente a New Orleans e sulla Gul f Coast (Costa del Golfo). Noi ti sentiamo, o Signore, forte e chiaro, proprio come abbiamo fatto quando il Reverendo Fawell disse che eri stato tu a provocare l'11 settembre per colpa dei gay e dell'aborto. Noi ti imploriamo, o Signore Misericordioso, di non punirci di nuovo dando ragione a Pat Robertson quando disse che ci avevi mandato Katrina per far pagare all'America «l'enorme carneficina di bambini non nati». Il suo sentire è già stato copiato da altri repubblicani nel 2005. Questo è l'appello che ti mando: non fare di nuovo questo alla Louisiana. I repubblicani hanno ricevuto il messaggio. Stanno lottando e fanno del loro meglio per mandare a New Orleans aerei, treni e bus onde far evacuare la popolazione. Stavolta non hanno mandato l'intera Guardia Nazionale della Louisiana in Iraq - stanno già pattugliando le strade della città. E, con un cenno del capo a non so cosa, il vertice di Bush della Fema ha nominato un uomo che aiuti a coordinare le azioni del governo federale. Il suo nome è W. Michael Moore. Non ti prendo in giro, Padre celeste. Hanno mandato un uomo che ha il mio nome e il mio cognome, e in più una W per aiutare la Gulf Coast a salvarsi. Perciò ti prego Dio, lascia che la tempesta muoia nel mare. Ha già fatto abbastanza danni. Se mi fai questo favore ti prometto di non invocare mai più il tuo nome. Lascerò questo compito ai fedeli del Reverendo Dobson e a coloro che questa settimana si riuniranno a St. Paul. Il tuo servo fedele ed ex seminarista, Michael Moore
"