lunedì 6 ottobre 2008

LA SCATOLA


Porto sempre con me la mia scatola, la tengo sempre in tasca. E' il mio salvavita, tutta la mia speranza è racchiusa in quel piccolo contenitore. Spesso lo accarezzo e ripenso alle parole dell'ipnotizzatore, in quella mattina del '45, con le macerie dei bombardamenti fuori della finestra che non lasciavano scampo ai desideri di resurrezione dei pazienti del manicomio. Io ero tra quelli. Le truppe alleate erano appena sbarcate in città e gli occupanti tedeschi erano fuggiti, sotto l'incalzare di quelle, non senza lasciare qualche cadavere sulla strada, per eccesso di zelo. Sembrava che la tenaglia dei giorni più bui dell'occupazione si potesse allentare, che davanti a tutti ci fossero finalmente i giorni della riabilitazione dopo la sofferenza. Eppure fuori faceva freddo e molti di noi, me compreso, non erano riabilitati, non erano pronti alla vita fuori. Le brande e le camerate, i corridoi freddi e i tegami unti senza niente da mangiare dentro erano tutto quello che avevamo e ci sembrava abbastanza di fronte alla fragilità delle nostre paure. Anche il sadismo di alcuni infermieri ci sembrava tutto sommato preferibile a quello che ci aspettava.

L'ipnotizzatore, come io lo chiamavo, era un medico, forse nemmeno quello, alcuni sussurravano che fosse uno studente di medicina. Era tra i pochi del personale del manicomio che nei giorni precedenti non se l'era data a gambe, per timore che i tedeschi, nella furia degli ultimi rastrellamenti, facessero piazza pulita anche di questo posto. Quando vide che molti di noi erano in preda a frenesie incontrollabili e che la situazione sembrava precipitare, ricorse a tutti i pochi mezzi che aveva per cercare di tirarci fuori dal baratro. Che era soprattutto il disordine causato dalle grida laceranti dei matti impauriti. Uno di questi mezzi era l'ipnosi appunto. Con molti funzionava, ed ha funzionato anche per me.

Non ho molto da raccontare, la mia giovinezza era cresciuta come un albero storto, che non si apre completamente al sole e all'aria. Ero asfittico. Mi avevano reso così le malattie, prima quelle fisiche, poi la fissazione mentale che era la più infelice e dolorosa tra tutte. Delle prime non ho molto da dire se non che il mio fisico era gracile e alcune delle normali malattie, che attaccano i bambini senza conseguenze, avevano lasciato su di me dei segni pesanti, che si erano riflettuti in difficoltà crescenti a far funzionare per bene la testa. Capivo poco di quello che gli adulti mi dicevano e spesso rimanevo immobile, come se qualcosa nella mia mente si fosse inceppata. Rimanevo immobile fino a quando qualche colpo ben assestato, da parte di mia madre o dei miei fratelli, mi faceva passare dalla quiete del nulla al significato del dolore.

Conobbi Vittoria. Fu un autentico sguardo fortunato quello, che avrebbe significato tanto per gran parte della mia vita successiva. Vittoria era una ragazza, credo della mia stessa età, forse uno o due anni più grande, la cui famiglia era venuta verso la fine degli anni Venti ad abitare nel cascinale confinante con la proprietà di mio padre. Gente benestante, si diceva, non so, non mi interessava. Di sicuro la sua presenza, le sue passeggiate lungo la strada vicinale erano momenti di euforia per me. La vedevo, bella, veloce, diversa da tutte le figure che avevo conosciuto, e la mia testa era presa da singhiozzi che acceleravano i miei pensieri in un turbinio di emozioni incontrollate. Quando la incontravo per strada, ero una persona normale, come tutti, la furia che avevo dentro di parlarle mi faceva sembrare calmo e sicuro. Facemmo amicizia. Lei sembrò disinteressarsi delle voci in paese che dicevano che ero lo scemo, o uno dei tanti. Era una ragazza libera da condizionamenti e sicuramente buona, nella maggior parte degli atteggiamenti. Camminavamo spesso insieme, oppure rimanevamo seduti su qualche grosso masso, senza dirci niente, perchè per noi parlavano gli sguardi e il silenzio. O perlomeno a me era sufficiente quello. In qualche momento ci siamo baciati ed io pensavo che non dovevo temere nulla, che potevo fare tutto. Pensavo all'amore e mi illudevo che quel tempo infame in cui tutti e due vivevamo, pieno di torture, di urla, di storie clandestine di uomini e donne picchiati e messi in prigione, fosse tutto sommato non così cattivo come mio padre raccontava. Mio padre non era d'accordo con il regime e spesso commetteva l'imprudenza di alzare la voce di fronte agli estranei. Una notte fu portato via, fu prelevato dal letto e non l'abbiamo più rivisto. Nei mesi successivi a quell'incidente, la famiglia di Vittoria si offrì di aiutare mia madre a tirare avanti di fronte alla situazione terribile che la mancanza di mio padre aveva creato; io pensavo che dovevo essere grato a mio padre perchè, con quella sua uscita di scena, io ero quasi entrato nelle consuetudini della casa di Vittoria. Trascorrevo gran parte delle mie meditazioni lì, spesso nella stanza di lei, che sfogliava riviste di moda mentre io la guardavo, di fronte al camino acceso. Mi sembrava che il fuoco, nel suo ondeggiare, quasi imitasse il movimento dei suoi capelli. Allora capivo tutto. Capivo così tanto che una sera mi sembrò la cosa più naturale del mondo dirle che l'amavo e chiederle se anche lei mi amava. A Vittoria sembrò la cosa più naturale rispondermi che io ero una delle persone a lei più care, che non credeva a quello che si diceva sul mio conto in paese, ma che no, non mi amava, che l'amore era una cosa seria e che non si può provare a diciassette anni, e poi sicuramente la sua famiglia non avrebbe approvato. Lei aveva altri piani per il suo futuro, l'Università, poi forse qualche anno all'estero. Eravamo così diversi, mi diceva, mentre sorrideva amabilmente, come a volermi convincere che nemmeno io potevo credere a quello che le avevo rivelato. Eravamo diversi, ma per lei era bello ed interessante avermi tra sue amicizie, perchè ero un ragazzo gentile e il mio cuore era buono.

Aveva ragione. Me lo chiedevo ripetutamente: aveva ragione? Da qualche parte nel mio cervello c'era uno straccio di spiegazione che non sapevo ricostruire, ma che mi faceva pensare che lei fosse la persona più ragionevole, tra i due. Ero pur sempre uno scemo, ma nei giorni, settimane, mesi che seguirono ero sempre un pò più inceppato rispetto alla scioltezza dei movimenti di quando camminavamo insieme senza che io avessi grilli per la testa.

Nell'autunno del 39 ci fu un taglio inaspettato quanto lacerante per me: la sua famiglia decise di trasferirsi a Firenze, dove erano proprietari di una bella casa signorile e di un negozio di pellami. Il padre pensava che i suoi affari avrebbero beneficiato se ci fosse stato lui a seguirli direttamente anzichè ricorrere ai soliti intermediari, come aveva fatto fino ad allora. E poi non poteva permettersi di stipendiare gli stessi dipendenti di prima, se ci fosse stato lui, si sarebbe potuto fare a meno di almeno due attendenti. In un giorno di ottobre Vittoria uscì dalla mia vista. Mi salutò stringendomi la mano e illuminando il mio viso incerto con uno sguardo sereno, inespressivo. Pensavo a quando ci baciavamo seduti sul muretto, le sere d'estate. Da quel momento Vittoria non uscì più dalla mia mente, ero rimasto come fissato sull'ultima immagine e, cosa più fastidiosa per mia madre e i miei fratelli, ero caduto in uno stato di immobilità. Ero una specie di corpo inerte e questo era un problema per la mia famiglia, che in quel momento difficile non poteva sostenermi in vita, mentre tutti correvano per procurarsi il cibo che scarseggiava e l'eco dei bombardamenti si faceva più vicina. La repressione dovuta alla scarsità di mezzi e alla cattiveria degli uomini non permetteva, è vero, di tenere in casa un malato mentale, specie in una casa da lungo tempo priva del pilastro fondamentale.

Così fui rinchiuso. Imparai a pensare un pò meno a Vittoria ed a considerarmi nella realtà soprattutto per effetto delle grida e dei lamenti degli altri pazienti del manicomio. Veramente a quei tempi ci chiamavano matti.

La mattina del mio rilascio, fui chiamato nella stanza dell'ipnotizzatore che mi fece stendere sulla solita branda e, dopo avermi riempito la testa di immagini altalenanti e di scintillii che mi confondevano, mi parlò con tono tranquillizzante. Conosceva la mia storia, era tutto scritto nella mia cartella clinica. Il nome di Vittoria era segnato come se fosse un sintomo della mia malattia. Mi guardò fisso in mezzo agli occhi mentre mi parlava: non ricordo bene, a distanza di tutti questi anni e con la mia memoria che era già debole allora, il senso del suo discorso. Nelle mie orecchie si fissarono le ultime parole che uscivano dalla sua bocca mentre mi consegnava una scatolina. La mia mente rimbombava di immagini e suoni e rumori che formicolavano come uno sciame di ragazzini urlanti in una corsa sfrenata. Tutto questo cessò quando l'ipnotizzatore, alludendo al contenuto della scatola, mi disse che avrei dovuto aprirla solo quando mi fossi sentito in grado di incontrare di nuovo il mio amore. Vittoria era lì dentro e questa sola certezza avrebbe reso i miei passi più sicuri, o comunque quando mi fossi sentito perduto, annientato, schiacciato, avrei dovuto pensare alla scatola, a quella scatola stretta nelle mie mani, oppure al sicuro nelle tasche. E se anche non avessi avuto di che sfamarmi, o fossi caduto nella disgrazia degli uomini, fino a quando fossi stato in possesso della scatola, sarei stato salvo. Sembrava poco, ma per me fu tutto. E non avevo bisogno di rimanere immobile col pensiero su Vittoria, perchè lei era lì con me.

Uscii dal manicomio, non avevo nessuno da salutare lì dentro, presto l'edificio fu lontano alle mie spalle. Gli anni sono passati, non so quanti, so solo che il mio cervello sembrava invecchiare più rapidamente di me, tanto che ad un certo punto dovevo sforzarmi molto per ricordare cosa dovevo fare. I volti erano tutti uguali, soprattutto l'espressione di sopportazione sulle loro facce era sempre la stessa. Ero un ingombro. Sono stato in molti luoghi che ora non ricordo più, in case di cura, ospedali, ambulatori, il più delle volte avevo attorno uomini e donne in camice, sempre affaccendati. A volte credevo, spesso ne ero sicuro, che quello zelo non era per me. Ho fatto mestieri, tutti dove non era richiesto di pensare e che non richiedevano movimenti complicati, sempre camminando dietro qualcuno che mi dava ordini. Ho dormito e mangiato in posti diversi, a volte con altri come me, malati mentali, altre volte con sani, sempre mi sentivo solo. Ora che mi sento vecchio, non so nemmeno se lo sono davvero, mi sforzo ogni giorno di essere pronto ad incontrare il mio amore. Ho sempre cercato di capire come potevo fare ad essere pronto, sempre mi arrendevo di fronte alla mia impotenza ma, alla fine delle mie sofferenze, c'era lei, la scatola, la certezza più grande. Lei mi teneva in vita. Ho pensato di barare talvolta, e di aprirla, ma il terrore mi paralizzava: cosa sarebbe successo se lei non fosse venuta?

Vittoria, amore, è incredibile come l'amore possa far diventare sano anche un malato mentale, io non sono stato molto nella mia vita, tutto quello che sono stato lo devo a te. Dicesti di non amarmi, che non potevi amarmi, perchè i tuoi progetti erano grandi e vividi, e scorrevano nelle tue vene decisi, come decisa e salda era la tua vita. Io non sapevo nemmeno cosa fossero i progetti. Non aveva importanza però, io ti amavo, perchè eri la cosa più bella che mi era capitata, era l'amore di uno solo, ma pur sempre amore era e io non volevo rinunciare. Per tutto questo tempo ho viaggiato come un treno che andava a zero all'ora, tutto scorreva attorno a me, ma tu, tu ci sei stata sempre, nella scatola. Il mio cuore è lì dentro, con te, ed anche se oggi o domani morirò – è da qualche giorno che mi sento molto debole – la scatola si conserverà, tu ti conserverai. E nel mare di cose che ho dimenticato, la sola che ricordo è quella che mi spalancherà davvero le porte del manicomio.

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