giovedì 4 settembre 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. III

Di solito il numero delle pratiche che venivano sistemate sulla scrivania di ogni impiegato, durante la mattina, era grosso modo corrispondente alla divisione del tempo lavorativo per un tempo medio per pratica. Ci poteva essere una pratica in più o in meno, ma questo non era determinante ai fini della pianificazione del lavoro, che consisteva nell’assegnare una durata ad ogni pratica. Questa stima veniva confermata oppure aggiustata dopo un breve scorrimento iniziale delle pratiche: di solito veniva aggiustata perchè ci si poteva imbattere in qualche pratica “pesante”. Le pratiche venivano classificate dagli impiegati in “leggere”, o normali, e “pesanti”, ovvero con eccezioni, per le quali occorreva più tempo. La formulazione di un piano di lavoro aveva lo scopo fondamentale di fare in modo che lo smaltimento delle pratiche accatastate sulla scrivania avvenisse con regolarità e si terminasse di esaminare l’ultima pratica pochi istanti prima dello scoccare della campanella che segnalava l’orario di uscita. Quello che bisognava assolutamente evitare era dare un’impressione di inattività agli uscieri di corridoio, ad uno sguardo d’insieme di un osservatore qualunque doveva sembrare che tutto procedesse regolarmente, senza affanni, come in un meccanismo ben calibrato. Quando una pratica pesante si fosse rivelata più insidiosa del previsto, era prassi comune, una volta terminata, di vistare la successiva senza leggerla tutta o addirittura passando direttamente alla fine per la firma. Questa procedura veloce tuttavia andava messa in atto con circospezione. Un ritardo era nell’ordine delle cose prevedibili con le pratiche pesanti, perchè le eccezioni andavano sottoposte al collega che se ne occupava, il quale le esaminava e poi dava il lasciapassare (in realtà avrebbe anche potuto bloccare la pratica con una sigla di non conformità, ma questa eventualità era del tutto remota e, a memoria mia, ma anche di altri colleghi più anziani, che svolgevano la mia stessa mansione, non si era mai verificata). Questa deviazione dal normale processo causava degli accumuli di tempo rispetto alle pratiche normali, dovuti a passaggi burocratici: questi accumuli venivano stimati nel piano iniziale ma poteva accadere che alla fine ci si trovasse con un ritardo maggiore rispetto al pianificato. Quel surplus di ritardo andava recuperato in qualche modo, non era pensabile di presentarsi al direttore di dipartimento adducendo scuse, o “pretesti”, come lui li chiamava, per trasferire al giorno seguente la parte che sarebbe rimasta inevasa del lavoro del giorno corrente. Si trattava di una eventualità prevista dal regolamento ma che in pratica non accadeva mai, soprattutto con questo direttore di dipartimento. Quello che succedeva era che, se non si stimava di poter smaltire tutte le pratiche restanti fino a fine giornata, in particolare perchè quel giorno c’era stato un grumo sfortunato di pratiche pesanti sulla propria scrivania, allora si chiedeva ai colleghi di ufficio, a volte anche a quelli dell’intero corridoio, di scambiare alcune delle proprie pratiche pesanti con altrettante pratiche leggere, alle quali si poteva applicare l’iter abbreviato. La richiesta di scambio avveniva furtivamente, per canali sotterranei per così dire, senza insospettire gli uscieri di corridoio o, peggio, il direttore di dipartimento, anche se era opinione comune che tutti fossero a conoscenza di questa modo di agire, ma almeno la forma andava salvaguardata. Alla richiesta di scambio si accompagnava il pagamento di una somma di denaro calcolata sulla base del numero e del tipo di eccezioni contenute nella pratica che si desiderava scambiare: c’era un vero e proprio tariffario al riguardo.

Negli ultimi tempi mi capitava sovente di arrancare con il lavoro di revisione delle pratiche, per cui riuscivo con molto affanno a smaltire il carico quotidiano; inoltre le frequenti richieste di aiuto ai colleghi avevano attirato nei miei confronti la loro diffidenza: siccome in passato la mia disinvolta precisione nello svolgere la mia mansione mi aveva guadagnato la loro invidia, ora tutti, non senza una punta di malcelato compiacimento, si domandavano il perchè di quel decadimento delle mie prestazioni lavorative. Anch’io me lo domandavo, ma univo a questa diverse altre domande e l’effetto di tutto questo lavorio di pensiero non necessario era che non riuscivo più ad avere l’abituale fluidità nell’esercizio delle mie mansioni. E questo accadeva perchè sentivo di continuo il bisogno di fermarmi: laddove prima il meccanismo scorreva senza inceppi, ora era soggetto a interruzioni tanto improvvise quanto non necessarie (o meglio non necessarie per il mio lavoro, ma necessarie ad un mio mutato modo di sentire). Scorrevo le righe della pratica che avevo sottomano quando, ad un tratto, il mio sguardo finiva per essere attirato da un particolare al di fuori della finestra, accanto alla mia scrivania. A volte guardavo semplicemente fuori, senza fissarmi su nulla. Oppure studiavo i dettagli di una scena che si svolgeva all’esterno, i personaggi che vi partecipavano, poteva essere una conversazione animata , della quale peraltro non mi arrivavano le voci, ma solo i movimenti dovuti al gesticolare di chi vi partecipava, od anche il semplice passare degli autoveicoli. Sembrava che cogliessi in ogni piccolo evento il pretesto a fermarmi. Questa mia nuova facilità alla distrazione si rifletteva nel ritmo che tenevo nello sbrigare le pratiche. Anche nel mio atteggiamento esteriore,  alla passata calma e padronanza, era subentrato un alternarsi di momenti di concentrazione, sempre più di rado indirizzata verso il lavoro, e di affanno per raggiungere l’obiettivo quotidiano.

Nell’edificio che fronteggiava l’ufficio sanitario c’era una balcone, abbastanza diroccato, a dire il vero. L’intonaco era screpolato ed annerito dai fumi della città e l’angolo era fatto perchè lo sguardo vi scivolasse sopra senza soffermarsi. Eppure quando si affacciava una donna, sempre la stessa, ora per stendere il bucato, con gesti lenti come in un rito, ora per innaffiare graziosamente un vaso di gerani, non potevo trattenermi dal sollevare gli occhi ad ammirare la scena. Ed era davvero un bel guardare, perchè la donna, bruna, di mezza età, fianchi agili e seno rotondo, era decisamente piacente, anzi bella. Indossava sempre camicie strette sulla vita ed aperte in corrispondenza del petto, e questa sua prorompenza fisica mi portava alla mente l’immagine di un ricco cono gelato con la cialda che a malapena conteneva le palle strabordanti di gusti assortiti. Potevo stare lì ad ammirarla anche svariati minuti, rischiando di incorrere nelle occhiate di controllo degli uscieri di corridoio, i quali aggiungevano anche un colpo di tosse per sottolineare la loro presenza sanzionatrice. I miei intenti bellicosi verso la catasta delle pratiche venivano infiacchiti da quelle visite sul balcone, a volte così frequenti da non sembrare casuali, anche se in realtà lo erano perchè ella non poteva sapere dei miei occhi che la seguivano voluttuosamente.

Mi rendevo conto di questa mia difficoltà nel lavoro, ma ero anche mentalmente disinteressato a capire dove fosse il problema. E poi anche fuori dall’ufficio c’era qualcosa che non funzionava. A passi regolari mi dirigevo verso casa, dopo l’orario d’uscita, ed era come se fossi sospeso su una corda da equilibrista, tesa tra l’ufficio e la mia abitazione, anzi tra quella finestra, attraverso la quale evadevo, e l’abitazione. Non esisteva altro intorno.

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