venerdì 29 agosto 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. II

Riesco a scorgere la donna che si allontana in bicicletta, e sono sempre più deciso a seguirla: questo improvviso interesse scaturito dal suo comportamento all’interno della chiesa mi fa sentire un pò strano, in fondo lei è una perfetta estranea che non ha commesso nulla di male, semmai ad essere reprensibile è la mia condotta di ora, questo mio irrefrenabile desiderio di volermi intrufolare nelle sue cose, quasi che lei possedesse la chiave per decifrare un mistero che riguarda soprattutto me. 

Mi affretto con una leggera corsetta verso la mia bicicletta, per fortuna la donna pedala lentamente ed è ancora ben visibile all’interno della scena. Mentre la seguo, con colpi di pedale misurati sulla sua velocità, la trama dei miei pensieri si divide, si dilania, una parte di me abbandona quello che sto facendo, per ricongiungersi ai ricordi e sprigionare ancora le solite riflessioni; o meglio, nuove riflessioni, perchè, se è vero che i pensieri iniziali sono gli stessi formulati altre volte, quelli che vengono dopo sono diversi, sembrano diversi, incanalati in un percorso non ancora compiuto. La domanda che ricorre anche stavolta è: perchè mi trovo qui, migliaia di chilometri lontano da dove dovrei essere, in questa città-luogo di transizione, non troppo ancorata all’Europa per potermi dare le certezze che mi servono – la massiccia realtà di un continente, la sua fisicità, può dare delle certezze, per lo meno dello stesso tipo che possiedono i rami di un albero, saldamente attaccati al tronco –  nè, d’altro canto, protesa verso la penisola scandinava quanto basta per infondere il senso del passaggio, del procedere, del proiettarsi verso qualcosa che verrà, necessariamente, dopo. Non sono riuscito a trovare una risposta, a darmi una convincente spiegazione, forse perchè ho troppo rapidamente e, quasi, inconsciamente, compiuto il viaggio che mi ha portato sin qui. Ci sono arrivato più perchè trascinato dal senso di vuoto della mia vita precedente, che per un calcolo ragionato o per un disegno dettagliatamente costruito. 

Il fatto è che la mia vita a Roma, dove avevo vissuto prima di trasferirmi qui, scorreva monotona come un vecchio tranvai procede con sussulti regolari su binari consunti. I giorni, le ore, perfino i minuti, si dipanavano uguali come se dovessero ogni volta rioccupare uno spazio già definito in ogni particolare, come se tutte le azioni e, in generale, gli eventi, fossero già stati, e più volte pure, già vissuti, già esistiti, ma non in una vita precedente, in questa vita. Insomma tutto quello che mi riguardava si susseguiva identico come il movimento delle lancette di un orologio. Questa regolarità avrebbe dovuto, per lo meno, darmi una solida certezza: avrebbe, dico, e forse in una certa qual misura era così. Ma non bastava. Più passavano gli anni, maggiore era l’inquietudine che mi derivava dalla consapevolezza che c’erano intere stanze nel mio mondo che non avevo ancora nemmeno aperto. Il mio lavoro, poi, non mi aiutava a rompere questo guscio di estenuante prevedibilità delle mie giornate: facevo l’impiegato in un sordido ufficio sanitario di un altrettanto sordido municipio di Roma e le mie ore lavorative trascorrevano nella minuziosa analisi di faldoni, detti “pratiche”, accatastati sulla mia scrivania e contenenti la documentazione di accertamenti sanitari svolti presso uffici, negozi, aziende, e che io dovevo validare con il mio visto. In questa mansione avevo essenzialmente due preoccupazioni: assicurarmi che nella documentazione, all’interno di ciascun faldone, non ci fossero elementi di irregolarità e per stabilirlo facevo uso di un manuale di regole di veloce consultazione, e smaltire tutte le pratiche, che venivano disposte ogni mattina sulla mia scrivania, non senza una ingegnosa ricerca di una qualche costruzione architettonica. All’inizio, parlo di circa dieci anni fa, quando venni assegnato all’ufficio sanitario, non mi era difficile trovare anche più di una irregolarità in ciascuna pratica che esaminavo e questo mi aveva guadagnato la considerazione ma anche il sospetto di molti miei colleghi. In seguito, gli ispettori sanitari, che redigevano le pratiche, forse anche grazie alle invidiose segnalazioni che erano loro arrivate da alcuni miei colleghi, si erano fatti più precisi nella compilazione, per cui il risultato fu che, da un certo momento, che ora non saprei ben collocare nel passato, in poi tutte le pratiche che mi arrivavano erano magistralmente esatte e, dunque, tutto il mio apporto si traduceva nel leggerle e nel comprovarne la regolarità apponendovi in fondo la mia firma. A volte, quando mi accorgevo che ero in ritardo con la quantità di lavoro che avrei dovuto svolgere nell’arco della giornata, mi limitavo a porre direttamente la firma e, così facendo, cercavo di rimettermi al passo con il piano che avevo fatto all’inizio per lo smaltimento del lavoro.

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