mercoledì 27 agosto 2008

VLADIMIRO CICOGNA - Cap. I

Suono solenne di canne d’organo. Le note gravi ed austere cadono dall’alto nel vuoto di una chiesa protestante. Sono nella Marmorkirken a Copenaghen, ma in realtà mi chiedo dove io sia veramente.

Il maestro organista riempie di convinzione lo spazio della chiesa: sembra che traduca in musica i suoi pensieri. Il tempo è un qualunque istante prima della funzione. I turisti riempiono di avide luci la navata: tutti sembrano assorbiti dal vuoto e dalla pioggia rarefatta di suoni. Il motivo si ripete monotono ma sempre nuovo: questo crea un’atmosfera ipnotica che svuota la mente. E’ come se da un momento all’altro dovessimo scoprire di trovarci nel risveglio di una nuova coscienza su un altro mondo.

Mentre la musica catalizza i pensieri più divergenti, incomincio a fissarmi sui caratteri delle persone che vagano nella chiesa: tutti diversi nei loro tipi e nei luoghi di provenienza, eppure tutti così uguali. Un giapponese, un tedesco, uno spagnolo: sembrano tutti la stessa persona.

Il tempo si dilata, i secondi sono minuti, i minuti ore, e niente accade. Una donna entra in chiesa: attraversa la navata e si siede in prima fila. Non ha una macchina fotografica, non ha una guida, è sicuramente sola e non prega. Nemmeno la musica sembra provocare in lei alcuna reazione. Guarda il crocifisso, il complesso statuario che sovrasta l’altare. Rimane fissa, come immersa in una visione, ma non sembra essere rapita dall’effetto artistico della scultura. La fissa come se cercasse di memorizzare i dettagli. Rimane immobile in questo atteggiamento ed io, incuriosito dalla scena, formo il terzo vertice di questa composizione geometrica: la donna, la statua, me.

Poi, d’improvviso, come se si trattasse di un’altra persona, incomincia a girovagare fra i turisti, quasi roteando attorno ad alcuni di loro. Prende di mira un giapponese e lo osserva come se stesse studiando i pori della pelle sul suo viso. Sembra dotata di un’acuità visiva non umana. Gira attorno all’uomo senza nemmeno far finta di interessarsi ai dettagli architettonici della chiesa: lui si mostra interdetto a quell’eccesso di attenzione, e imbarazzato. La situazione si risolve quando l’uomo viene strattonato da un bambino, evidentemente suo figlio, che reclama l’attenzione e le premure del papà, il quale si concede a lui, dimentico del resto.

La donna si è spostata ed ora sta esaminando una coppia di innamorati, che siedono sulle panche accanto all’ingresso principale, tenendosi per mano. Li scruta con voluttà indagatrice fino a quando il giovane le invia uno sguardo, dapprima interrogativo, poi di rimprovero, senza che lei cambi, per questo, posizione.

Non so cosa pensare. La curiosità ha il sopravvento. Per un pò il suono delle canne dell’organo mi riporta alla rarefatta atmosfera di prima, quell’espansione di coscienza fluttuante nel volume della struttura. Uno stato di entropia crescente, che io percepivo come l’ordine naturale delle cose. Quest’ordine viene rotto al suo interno da un punto, una particella anomala che attira su di sè il vagare, il fluttuare, l’ordine-disordine dei suoni, dell’aria, delle persone, del vuoto solenne della Marmorkirken. Anzi quella particella diventa la chiave di volta del contesto, attira su di sè tutto l’interesse della situazione, come l’epicentro di un sisma. Mi abbandono a questi pensieri, poi, semplicemente, mi abbandono, seduto, la mente aperta. Provo un grande senso di liberazione. Mi riprendo giusto in tempo per vedere la donna camminare con passi decisi verso l’ingresso. Sta uscendo. Un istante dopo sto uscendo anch’io: sto obbedendo ad un impulso più che ad una volontà determinata. Fuori mi accoglie un soffio di vento fresco: è agosto, ma è anche tardo pomeriggio e a quest’ora qui a Copenaghen la temperatura di solito non supera i 10 o 12 gradi. Il cielo è di un azzurro molto forte, interrotto qua e là dalle nuvole che lo solcano sospinte dal vento: è un buon segno perchè vuol dire che non pioverà. Una volta fuori dalla Marmorkirken un improvviso senso di angoscia mi assale. Di solito mi succede quando mi trovo al centro di ampi spazi all’aperto, come ora, sull’ampia scalinata che guarda poco lontano sulla piazza di Frederiksgade, dominata dalla statua equestre di Federico V. Credo che questa forma di malessere si chiami agorafobia, ad ogni modo si tratta di un problema che mi tormenta sin da piccolo, quando, camminando mano nella mano a fianco di mia madre, provavo lo stesso dolore e la stessa sensazione di stare annaspando, mentre attraversavamo le piazze della mia città nel sud dell’Italia, la mattina, prima che lei mi infilasse, energica contro il mio combattere recalcitrante, nel grande androne della scuola.

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